Author: Carlo de Michele

L’IMPORTANZA DELLE IMMAGINI

Carlo de Michele

27 novembre 2011

 

Sogni, miti, favole, religioni, ricordi, arte, inganni, verità.

Ricordi e poi cultura.

Comunità e politica.

Un filo rosso lega tutto: La capacità di creare immagini; la capacità di crearne dentro di sé e di suscitarne negli altri.

La capacità di manipolare le immagini è sempre stata la via maestra della conquista del potere.

Perché?

Perché la possibilità di fare un’immagine è la base del pensiero umano.

Poi viene la capacità di inventare parole per descrivere e comunicare le immagini create.

Il linguaggio nasce in funzione dell’ esigenza di comunicare ad altri le proprie immagini interne.

Per comunicare informazioni sull’ambiente o regole di comportamento o strumenti di sopravvivenza sarebbe bastato, come ancora è sufficiente per i Primati, il linguaggio mimico. Comunicare ciò che è uguale per tutti richiede solo pochi, semplici  gesti simbolici.

Ma una propria immagine interiore non può essere comunicata a gesti. E’ nota solo a noi e contiene emozioni provate unicamente dal suo creatore, e per comunicarla è stato necessario evocare complicati gorgheggi evocativi, che riecheggiano il “canto” dei neonati… o delle Sirene. Dal canto al linguaggio verbale. La specializzazione della modulazione vocale ci permette di comunicare contenuti mentali assolutamente personali ed unici.

Non credo proprio che il linguaggio sia nato per indicare oggetti o necessità. Troppo pigri gli uomini: avremmo continuato semplicemente ad indicarli nei secoli dei secoli…amen.

Invece la spinta interna ad esprimere l’onda di emozioni che nasce dal centro del cuore e sembra spingere la pelle sino ad esplodere in conseguenza dell’assurdità senza parole che è lo sfregamento di mucose amanti, fa nascere nella gola l’urlo che poi diventa canto, che poi diviene poesia, di parole più ricche di senso che di significato, parole prossime alla musica ma vicine alle arti figurative, che toccano la pelle come a dare forma e a levigare un marmo, che emergono quando l’onda di passione si è fatta turbinio di colore, definizione di forme mai viste, di immagini di sogno, libertà di trasformare la forma obbligata degli oggetti esistenti, piegare la linea fino a definire non tanto i contorni dell’esistente quanto a disegnare la forma infinitamente cangiante dei nostri pensieri.

Immagini create, né viste né ricordate, nate dentro di sé per l’attività della mente, che si mescolano con le immagini registrate e ricordate, nate dalla semplice reazione degli organi di senso alle variazioni energetiche indotte dall’impatto con gli oggetti esterni.

Immagini diverse quelle create e quelle viste e ricordate, ma vere entrambe.

Peraltro forse possiamo azzardare l’idea che immagini oggettive di realtà esterne che impattano i nostri recettori sensoriali e che vengano registrate ed archiviate in modo rigorosamente lineare proprio non esistono.

Non esiste stimolo che induca una reazione senza contemporaneamente indurre una risposta dei nostri sistemi interni di vigilanza e difesa.

Un’immagine ricordata è in realtà un’immagine ricostruita funzione di uno stimolo che colpisce la nostra reattività irrazionale.

E’ la nostra fisiologia.

I nostri recettori non stanno lì semplicemente  per registrare ed archiviare. I nostri recettori sensoriali, così come è dalla nascita della prima cellula, servono per cogliere le continue modificazioni dell’ambiente esterno, comunicarle alle strutture interne e attivare i meccanismi automatici interni perché modifichino i livelli e le tipologie di funzionamento in funzioni delle modificazioni ambientali così da mantenere l’equilibrio interno. La conoscenza viene dopo, sia come puro apprendimento motorio automatico, sia come organizzazione dei pensieri relativi agli eventi.

Pensieri….ma come si passa dalle reazioni recettoriali alla apparente immaterialità d’un pensiero? Che relazione c’è tra il ricordo d’un fatto ed il pensiero in base al quale possiamo raccontarlo?

Il ricordo può essere inconsapevole. Ogni nostro singolo neurone può memorizzare uno stimolo degno d’essere ricordato: se uno stimolo ha certe caratteristiche un neurone modifica la propria struttura anatomica creando una nuova sinapsi. E’ così che quell’evento resta impresso nella nostra struttura. E’ questo il meccanismo che ognuno di noi ha usato per imparare a camminare o andare in bicicletta, o che ogni atleta usa, anche da adulto, quando impara ed automatizza un nuovo gesto tecnico.

Ma il ricordo, anche inconsapevole, non è mai il ricordo dell’oggetto, ma il ricordo della modificazione del nostro corpo che quell’oggetto ha determinato in noi. Il ricordo è sempre ricordo di noi stessi in quella situazione. E questo modo di ricordare è comune a tutti gli esseri viventi.

Quando è comparso ciò che noi chiamiamo ricordo cosciente?

Quando, in concomitanza con lo sviluppo della massa cerebrale, l’animale implume detto homo ha perso il rassicurante determinismo relativo alla nicchia biologica di appartenenza ( ricordiamo che ogni animale nasce perfettamente adeguato all’ambiente in cui dovrà vivere, come il leone nella savana o l’orso bianco al polo, mentre l’uomo alla nascita non è adeguato a vivere in nessun posto, ma ha la potenzialità di vivere ovunque).

Ciò vuol dire che per poter vivere questo animale deve in parte modificare sé stesso  adeguandosi all’ambiente e, fondamentalmente, modificare l’ambiente (purtroppo e troppo spesso sino distruggerlo) per renderlo adeguato alle sue esigenze.

Di fronte al problema di “inventare” un nuovo animale che possedesse già alla nascita tutte le strutture e le funzioni istintive adeguate queste nuove esigenze, la natura ha scelto una modalità molto più economica:   invece di creare un animale con qualche milione di geni e con un sistema nervoso centrale enorme, portando alle estreme conseguenze ciò che si era dimostrato valido sino ai nostri più vicini antenati, cioè le scimmie antropomorfe, ha selezionato un animale privo di istinti, ma con una corteccia cerebrale sufficientemente grande rispetto alla massa corporea, capace di sostituire l’automaticità delle risposte inconsapevoli determinate da circuiti neuromotori predisposti, con la complessità di risposte create all’istante da una attività corticale capace di fare nessi e inventare soluzioni.

A questa novità anatomica è seguito lo sviluppo di nuove importantissime funzioni: la consapevolezza di sé e la nascita del pensiero.

Un pensiero particolare, che doveva tenere presente contemporaneamente il dato esterno, cioè la corrispondenza tra l’attività dei propri recettori e l’oggetto che li aveva stimolati, e la reazione globale dell’organismo, cioè la reazione neurovegetativa che potremmo anche chiamare proto-emozione.

Il tutto, sempre in ossequio al principio della massima economia, viene sintetizzato in una immagine mentale che mantenga una relazione con l’oggetto ma che lo modifica in funzione della reazione emotiva che esso ci ha determinato. Per fare un esempio se due persone diverse vedono lo stesso leone allo zoo quella che prova paura verosimilmente poi ricorderà un leone a fauci spalancate nell’atto di aggredire mentre quella che non ha avuto paura ricorderà un leone sdraiato e sonnacchioso somigliante ad un grande gatto in siesta. Il racconto poi che ne faranno sarà uno ricco di particolari atti a suscitare nell’uditore la stessa emozione di paura, con ulteriore modificazione del dato di realtà, mentre l’altro ci suggerirà un’immagine oleografica da valle dell’Eden.

E nessuno dei due mente!

Dunque la nostra mente ha come compito principale non quello di costruire archivi fotografici come documento di verità oggettive  (lasciamo questo compito a filosofi razionalisti) ma quello di costruire una conoscenza del mondo adeguata al nostro particolare modo di essere: noi dobbiamo conoscere il mondo secondo la nostra particolare modalità e possibilità di viverlo. Ognuno di noi ha il faticoso compito di andare nel mondo per riceverne impressioni, vivere le proprie reazioni e sintetizzare questi eventi in una immagine creata che costituirà l’elemento basilare della nostra conoscenza e l’imperativo dei nostri comportamenti. Ciò che noi comunichiamo attraverso i linguaggio verbale è proprio la singolarità delle nostre conoscenze cariche di senso soggettivo. La somma delle immagini create costituisce quell’elemento emergente che è la consapevolezza storica del sé.

Vorrei notare che le nostre biografie sono in realtà “favole” con cronologie artefatte dalla scelta di eventi significativi, enfatizzati, ridimensionati o camuffati o semplicemente ricordati in modo da comunicare la percezione del senso che noi attribuiamo alle nostre vite. Tanto che abbiamo dovuto inventare marcatori di tempo e spazio per dare una organizzazione “razionale” a quanto invece vagherebbe nell’indefinitezza della atemporalità del nostro spazio interiore.

E comunicare attraverso storie inventate è comunemente accettato perché il modo di comunicare è in realtà sempre soggettivo, fondamentalmente determinato del reciproco movimento dall’invisibile, del non oggettivo, dell’irrazionale. Anche se ciò che non si vede ma che percepiamo perché diverso o addirittura seducente, comunque destabilizzante, può essere immaginato pericoloso e quindi rinchiuso dietro le sbarre della razionalità.

Succede allora che le comunità si associano intorno ad una favola fondante e data come verità identitaria, un racconto di emozioni condivise, la costruzione di radici che rendano meno sconosciuto   l’uno all’altro. Sicurezza e identificazione nei valori comuni invece dell’incertezza  dell’identità e del rischio della seduzione…Sopravvivenza e riproduzione invece di amore. Rinuncia alla creatività della propria fantasia per la sicurezza di condividere una favola buona per tutti. Credere invece di creare pensiero e conoscenza.

E’ evidente che il massimo compromesso che l’uomo senza identità può fare per non diventare completamente pazzo è quello di inventare religioni. La religione è il supermercato della fantasia. Sogni, motivazione e senso come produzioni industriali, vendibili a basso prezzo (si fa per dire) e usabili da tutti. Perché faticare per creare i propri sogni, scoprire i propri desideri, la propria visione del mondo, confrontarli con altri diversi da sé per verificarne il valore umano, quando è sufficiente fare contratti in cui si dichiara una volta per tutte quali saranno affetti, pensieri e comportamenti della propria vita?

D’altro canto per la nostra sopravvivenza materiale è necessaria la conoscenza oggettiva del mondo materiale, per governarlo e trarne tutto ciò che soddisfa i nostri bisogni. Per tanto  abbiamo inventato una modalità di pensiero che riteniamo oggettivo se ubbidisce e si struttura secondo regole condivise, e se mantiene una rigida corrispondenza con i fatti materiali; un pensiero che non subisca le modifiche che inevitabilmente le nostre reazioni individuali (emozioni) determinano. Questa modalità, detta scientifica, di creare pensiero sembra obbligatoria e quindi, almeno dal 1600 ad oggi, se non vogliamo dire dalla nascita del pensiero filosofico ad oggi, cultura e pedagogia sono state piegate alla necessità di far apprendere verità oggettive, pulite da deformazioni emotive. Verità, dati crudi, che non possono essere trasformati in immagini. Scienziati computerizzati che non colgono il valore umano delle loro verità. Verità razionale che può uccidere la verità irrazionale del pensiero creativo; verità che, private della struttura intima  costituita dal senso umano dei nostri pensieri, c possono anche essere distorte sino alla distruzione, dell’uomo e dell’ambiente in nome di concentrati di follia come il profitto.

Ma evidentemente, senza un minimo di fantasia, sia pure corrotta e mercificata, non è possibile vivere, e allora è facile vedere fior di scienziati genuflessi nei templi, tecnici governativi rigorosamente cattolici. Le favole delle religioni che resistono immutate da migliaia d’anni incuranti dell’appalesarsi sempre più evidente dell’inganno e della “razionalità” che le pervade.

Perché sono le uniche narrazioni in cui abbiamo alienato la creatività, il fantastico, l’irrazionale, il miracoloso.

Il miracolo, la guarigione miracolosa, non deve  essere pensato come capacità del pensiero di concentrarsi fino a cogliere l’errore della esclusione dell’irrazionale e che invece può riprendere il corretto rapporto con le funzioni del corpo, ma deve essere pensato come un evento trascendente.  Chi si appropria della mediazione col trascendente si identifica col potere.

Il pensiero si nutre di immagini, che dovrebbero essere sempre nuovamente create. La fatica di vivere, che è il prezzo della liberta e dell’umanità.

IL PENSIERO E LE EMOZIONI: NESSI E RELAZIONI.

 

Carlo de Michele

23 dicembre 2015

 

La specie umana è caratterizzata dalla completa mentalizzazione della propria organizzazione. Ciò significa che condivide con le forme di vita evoluzionisticamente precedenti tutte le strutture biologiche (anatomo fisiologiche) che consentono l’automatico svolgimento delle funzioni vitali ma che esprime una caratteristica assolutamente nuova, cioè lo sviluppo umano del pensiero che permette una scelta individuale sul controllo delle modalità di espressione della vitalità.

Sin dalle prime forme di vita organizzata, per giungere sino all’uomo, compare la capacità di recepire il variare delle condiziono esterne per modificare i metabolismi interni al fine di mantenere un corretto equilibrio omeostatico.

Man mano che le organizzazioni animali divengono evolutivamente più complesse anche le modalità di regolazione degli equilibri interni in relazione alle variazioni delle condizioni esterne si complicano: tra di essi cessa di esistere un rapporto diretto, ma si sviluppano strutture le cui funzioni sono specializzate nel raccogliere e trasmettere informazioni (Sistema Nervoso)

All’interno di questo riconosciamo.

1) Sistemi recettoriali specializzati. Costituiti da   strutture capaci di rispondere ognuna alla stimolazione da parte di forme di energia diverse per cui è specificamente recettiva e di trasmetterla al midollo spinale, ai centri superiori sino alla corteccia cerebrale.

2) Sistema Nervoso Autonomo: la sua funzione è quella di regolare armonicamente l’attività dell’intero organismo nelle varie circostanze che si presentano nel corso della vita. All’interno del SNA riconosciamo due sottosistemi:

IL SISTEMA PARASIMPATICO che presiede ed organizza tutte le funzioni interne necessarie al mantenimento dell’efficienza, all’autoriparazione dell’organismo ed alle funzioni riproduttive.

IL SISTEMA SIMPATICO, da cui dipendono tutte le funzioni “esplorative” nei riguardi dell’ambiente al fine di provvedere nel modo più utile possibile alla soddisfazione delle esigenze energetiche. E’ cioè il sistema che permette qualsiasi forma di attività, che regola il bilancio energetico.

La coordinazione di questi due sistemi apparentemente antitetici è garantita da funzioni centrali, anche esse condivise con i mammiferi superiori, sino alla emergenza di attività corticali estremamente complesse.

L’ulteriore evoluzione rispetto ai primati, con il prevalere delle funzioni corticali e con il complicarsi delle funzioni vitali, porta a privilegiare nel rapporto col mondo esterno quello con i propri simili, vale a dire che la possibilità di avere una cognizione sempre più precisa dell”Umore” del proprio simile diventa l’elemento forse fondamentale dell’esistenza.

Questo tipo di evoluzione si correla con l’emergenza delle funzioni psichiche; ovviamente il Sistema Psichico, il Sistema Nervoso Autonomo ed il Sistema somatosensoriale sono strettamente legati ed interdipendenti.

Nella specie umana si arriva ad un tale livello di complessità che la risoluzione dei vari problemi vitali diviene totalmente originale, addirittura unica, cioè sganciandosi pressoché totalmente dalla schema di risposte stereotipate e guidate dagli istinti tipica anche dei primati (per quanto modulata in queste specie dalle notevoli capacità di apprendimento) e arrivando all’”invenzione” del linguaggio verbale, indispensabile per una raffinata comunicazione di elaborati di pensiero unici, originali, individuali.

Quanto sinteticamente esposto corrisponde a funzioni nervose che è molto difficile individuare isolandole dal contesto delle infinite elaborazioni e processazioni a cui ogni singolo evento nervoso viene sottoposto, ma usando la scala evolutiva come modello delle varie funzioni emergenti è possibile giungere ad uno schematismo riduttivo efficace..

 

  • IRRITABILITA’

La prima funzione nervosa che emerge è la IRRITABILITA’ cioè la capacità della superficie di confine di reagire in modo stereotipato, globale e generalizzato a qualsiasi tipo di stimolo, senza alcuna distinzione della sua qualità.

 

  • SENSIBILITA’

Sulla superficie esterna si sviluppano poi particolari strutture nervose dette RECETTORI specializzati nel reagire esclusivamente a specifiche forme di stimoli. Si hanno quindi recettori termici, dolorifici, tattili, acustici, visivi, olfattivi, gustativi che rispondono al calore, pressione luce, stimoli chimici ecc. E’ a questo livello che cominciamo a parlare di SENSIBILITA’, cioè di risposta specifica (e quindi di individuazione e selezione) di caratteristiche distinte del modo esterno

 

  • PERCEZIONE

Le informazioni condotte centralmente dai vari recettori specializzati vengono immediatamente correlate e processate dando Luogo alla PERCEZIONE, cioè a quel livlello di elaborazione che consente l’individuazione di un oggetto esterno e delle sue caratteristiche.

 

  • EMOZIONE

La percezione dell’oggetto esterno costituisce un primo livello di conoscenza che permette di individuarne le caratteristiche distinguendo l’animato dall’inanimato, e, nell’ambito dell’animato, le caratteristiche animali da quelle   umane.

Ciò è possibile in funzione del fatto che la trasmissione delle informazioni verso il centro (midollo spinale, cervello) ha il compito di predisporre l’organismo alla risposta, quindi a modificare in tal senso l’equilibrio del Sistema Neurovegetativo. E’ evidente quindi che il modo di reagire ad un evento deve essere il più puntuale possibile e la scelta del tipo di risposta non può dipendere dalle caratteristiche dell’oggetto che può anche essere sconosciuto, ma deve basarsi su qualcosa di certo, cioè il tipo di reazione automatica dell’organismo. Io definisco questa condizione: EMOZIONE intendendo con tale espressione il complesso di reazioni neurovegetative, cioè livello e qualità di attivazione di organi ed apparati, in funzione diretta e automatica degli stimoli recepiti. Questo processo e quasi del tutto simile a quanto accade anche negli animali. Ciò che distingue l’umano dall’animale è il modo in cui l’emozione dà luogo al processo di conoscenza. Nell’uomo le reazione neurovegetative si riferiscono immediatamente alla nascita ovvero alla reazione di difesa contro gli oggetti inanimati (attivazione massiccia del s. ortosimpatico sino “all’annullamento” della realtà esterna, ed alla conseguente reazione all’immagine-ricordo della esperienza umana vissuta nell’utero (ripristino dell’attività parasimpatica con recupero della energia, ristabilimento dell’equilibrio energetico interno, formazione del primo abbozzo di attività mentale). In funzione di questo riferimento secondo me esistono solo 2 tipi di emozioni di base:

 

  1. ALLARME, in tutte le sue declinazioni come rabbia, aggressività, paura; reazioni cioè ad un oggetto esterno potenzialmente pericoloso o che comunque richieda l’attivazione di un comportamento difensivo a costo energetico alto. Tenere presente che il sistema ortosimpatico è il “ministero delle finanze” quello cioè che stabilisce e finanzia le spese energetiche di tutto il corpo.
  2. ABBANDONO, in tutte le sue accezioni quali attesa, fiducia, simpatia, gioia ecc., atteggiamento interno rispetto a condizioni percepite come capaci di corrispondere all’attesa, di fornire ciò di cui si ha necessità senza che il soggetto debba compiere un lavoro per procacciarselo. E’ la condizione conseguente all’accudimento, al ricevimento del regalo. Ovviamente ha come modello la condizione organica esistente all’interno dell’utero. Ortosimpatico = fare; Parasimpatico = ricevere.

 

Il fatto che in letteratura esistono diverse classificazioni che distinguono almeno 8 Emozioni primarie : rabbia – paura; tristezza – gioia; sorpresa – attesa; disgusto – accettazione dipende dal fatto che non viene ben discriminato quanto è puramente neurofisiologico da quanto è prodotto di conoscenza o di elaborazione psichica. L’altro elemento che genera confusione può essere il fatto che non si sa cosa sia la nascita e come si articola il pensiero.

In realtà, dal punto di vista neurofisiologico, evolutivamente all’inizio esisteva solo il sistema parasimpatico, cioè quello che doveva provvedere all’accumulo dell’energia interna necessaria al mantenimento dell’omeostasi. Solo successivamente si è differenziato il s. ortosimpatico per mezzo del quale è stato possibile, in particolari circostanze pericolose, bloccare l’uso dell’energia per mantenere l’omeostasi ed utilizzarla per compiere azioni nell’ambiente. Immaginiamo una fabbrica: in condizioni normali tutto il personale lavora alla catena di montaggio; in caso di aggressione nemica il personale interrompe il lavoro alla catena di montaggio ed esce per combattere.

 

 

  • SENTIMENTO

Al di là di qualsiasi accezione letteraria per sentimento dobbiamo intendere il “sentire” le emozioni, cioè la consapevolezza delle reazioni del proprio corpo in funzione dell’esistenza di un determinato stimolo esterno.

E’ a questo livello che la differenza tra elaborazione animale ed umana la differenza comincia ad essere più netta. Fermo restando il fatto che queste realtà neurologiche hanno lo scopo comune di salvaguardare l’integrità del soggetto e della specie, la consapevolezza delle emozioni rispetto alla loro causa nell’animale va a costituire un nucleo esperienziale capace di ottimizzare gli istinti che restano i motori primi dei comportamenti, nell’uomo l’esperienza si trasforma in conoscenza cioè in quel continuo di immagini mentali (pensieri, idee) che diventano i motori dei comportamenti umani, relegando i controlli istintivi a ruoli secondari. Secondo me è a livello del sentimento che è possibile operare la distinzione che invece viene fatta a livello delle emozioni: nell’ambito delle 2 emozioni fondamentali si sviluppa la discriminazioni di differenze e similitudini che permette di elaborare sentimenti simili ma diversi, operazioni necessaria per costruire categorie di conoscenza degli oggetti molto precise e che permettono poi di interagire con essi stabilendo le “giuste distanze”

 

  • AFFETTO

L’etimologia di questo termine è: ad facio ed implica il concetto di attività volto verso qualcuno. Quindi esprime un’idea di necessità di regolare i rapporti interumani, dunque un livello di elaborazione più alto di quello dei sentimenti, che possono avere ancora un oggetto indefinito.

L’idea di “fare nei confronti di qualcuno” implica una consapevolezza delle emozioni da qualcuno suscitate, la consapevolezza della propria identità, l’intenzione di avere rapporto con qualcuno, quindi una complessa elaborazione di pensiero consapevole. Una storicizzazione ed una verbalizzazione del proprio essere in rapporto che ha come fine non tanto la sopravvivenza quanto la realizzazione identitaria.

 

IN SINTESI:

 

IRRITABILITA’. Generica reattività agli stimoli, indifferentemente diffusa su tutta la superficie irritabile capace di indurre risposte globali ed indifferenziate.

SENSIBILITA’: attività recettoriale specializzata che distingue le varie forme di energia, ed   induce risposte modulate e specifiche.

PERCEZIONE: prima elaborazione dei dati sensoriali che permette l’identificazione dell’oggetto esterno.

EMOZIONE: atteggiamento funzionale interno gestito in modo diretto ed automatico dai sistemi orto e parasimpatico al fine di dare una risposta immediata ed indipendente dall’elaborazione volontaria   a stimoli esterni qualitativamente diversi.

SENTIMENTO: elaborato corticale di consapevolezza delle emozioni in funzione del quale è possibile categorizzare gli oggetti esterni, considerare il valore che essi hanno per il soggetto, memorizzare formando esperienza capace di regolare i comportamenti.

AFFETTO. Prodotto mentale complesso che storicizza attraverso la verbalizzazione la reattività emotiva individuale che guida i comportamenti verso altri individui.

 

Entropia…        

Carlo de Michele

30 dicembre 2004

 

L’ineluttabilità del significato d’un principio…

Lo sgomento di un’eclissi di sole…

Qualsiasi sistema isolato evolve verso uno stato di eqilibrio in cui permane indefinitamente…..

Cioè?:

Qualsiasi sistema organizzato, da una semplice pietra al più complesso dei mammiferi, tende naturalmente alla disgregazione.

Quindi ciò vale anche per gli esseri umani? Vuol dire che noi siamo destinati a morire e che tutto ha un termine…con poche speranze nell’aldilà?

Si, certo.

…e nemmeno l’anima si sottrae a questa legge?

La realtà umana è materiale e le sue funzioni od espressioni, come appunto ciò che noi indichiamo con la parola anima, non possono esimersi dal sottostare alle leggi generali della natura. Anche se la materialità dell’anima ha caratteristiche peculiari.

Mi rendo conto che io, come del resto, mi sembra, la cultura media generale, invece penso all’anima come trascendenza non materiale che aggiunge alla realtà animale quelle caratteristiche che la rendono umana. Se è invece solo materiale cos’è che posso definire “vita umana”?

Definire la vita umana non è semplice, quindi cercheremo prima di costruirci della idee di base. Parlando in generale, la vita è quel breve spazio di tempo, compreso tra la condizione di massima in-potenza e di massima im-potenza, in cui un aggregato molecolare detto “sistema complesso in equilibrio dinamico”, grazie al continuo apporto di energia dall’esterno, riesce ad aumentare la propria entalpia (cioè, in prima approssimazione, l’energia contenuta all’interno del sistema). Mi spiego meglio: dal concepimento alla nascita ogni animale cresce, cioè sviluppa quanto contenuto nel codice genetico realizzando il massimo della possibilità di vita relativo alla propria specie. Dalla nascita in poi ogni animale, nel contatto col proprio ambiente, realizza delle proprie possibilità quella parte che consentirà la vita del singolo individuo sino alla sua morte. Questo ciclo è caratteristico della materia vivente in ogni sua accezione. Per parlare di “vita umana” sarà necessario osservare molti altri particolari che emergeranno man mano che questa “dialettica” si svilupperà.

Bene, avrò pazienza. Allora possiamo chiarire il rapporto che c’è tra energia e materia in un essere vivente?

Se noi osserviamo lo sviluppo fetale vediamo che a partire dalle cellule fecondate si sviluppa un intero organismo. Ciò vuol dire che, per un periodo prestabilito, miliardi di molecole si aggregano per formare nuove cellule, organi, apparati. Perché ciò avvenga è necessario l’apporto di materia ed energia, cioè i mattoni per costruire il nuovo individuo e la malta per tenerli insieme. Tutto ciò avviene od opera esclusiva del corpo della madre, o della materia ed energia contenuta nell’uovo per gli animali non mammiferi, come pura espressione delle specifiche caratteristiche biologiche. Il feto è espressione passiva dell’attività dell’animale genitore che consente lo sviluppo delle potenzialità contenute nel genoma, così per una formica, ma potremmo anche dire per una pianta rispetto al suo seme, come per il feto umano. Dunque in tutta la fase fetale la madre (o l’uovo) fornisce energia e materia ed il feto si costruisce trattenendo i materiali di costruzione e l’energia necessaria per mantenerli coesi e renderli potenzialmente efficienti. Solo dopo la nascita il neonato dovrà attivamente cercare fonti da cui ricavare l’energia e la materia necessaria per auto mantenersi e compiere il lavoro necessario per trovare fonti alimentari adeguate. Inizia così un “bilancio energetico” e l’animale vivrà fin tanto che il bilancio è positivo.

La tanto diffusa idea di lavorare per raggiungere uno stato di sicurezza, di equilibrio, la famosa “posizione” in cui non è più necessario “darsi da fare”, allora, non nasce da una realtà biologica?

No, certamente no. Forse deriva dal fatto che l’essere umano fa fatica ad accettare che vivere è sinonimo di lavorare. Sembra che non sia facile accettare la “fatica di vivere”, ma questo concetto ha ben altre basi psicologiche. Per la realtà vivente, un equilibrio energetico stabile, considerato come un rapporto tra le proprie parti costitutive non più passibile di trasformazione, non esiste.

Esiste invece una sorta di continuo riequilibrio di forze in continua crescita e trasformazione rispetto agli stimoli dell’ambiente . Un essere vivente è dunque un sistema in equilibrio dinamico, al contrario invece di ciò che accade ad esempio per una bella colonna dorica che, una volta che sia stata forgiata e collocata resta stabile nel tempo, sottostando solo alle leggi dell’entropia.

I sistemi viventi sono organizzazioni instabili di parti (particelle, atomi, molecole, tessuti, organi) in continua evoluzione e adattamento che per mantenere la loro condizione unitaria individuale necessitano di sempre nuova energia. Ma, ancora, ogni nuovo apporto serve a stabilizzare una modifica che a sua volta dovrà essere bilanciata da un’altra trasformazione che richiede altra energia.

Dunque la vita si mantiene finché esiste una possibilità di crescita-evoluzione del sistema.

Rimanere uguali a sé stessi, cioè mantenere stabile una condizione precedentemente raggiunta, per l’uomo è impossibile. Per capire questa affermazione è necessario puntualizzare la differenza tra il concetto di Equilibrio e quello di Equilibrio dinamico. L’Equilibrio è una condizione di bilanciamento stabile di forze, di staticità che è del tutto estraneo alla realtà vivente. Equilibrio dinamico è invece quella condizione in cui ad ogni variazione di energia deve corrispondere una variazione di segno opposto così che il contenuto energetico totale del sistema resti invariato. Per chiarire: se un animale assume una certa quantità di cibo (=energia) per restare in equilibrio dovrà spendere quell’energia per alimentare il suo metabolismo e per muoversi. Se la quantità energetica assunta è maggiore delle necessità allora dovrà essere trasformata in materiali di riserva relativamente stabili poiché non è possibile mantenere uno squilibrio energetico per un tempo indefinito. Sembra un paradosso ma un essere vivente per restare in equilibrio deve sempre “muoversi”.

E’ interessante però notare che non solo gli alimenti forniscono energia (chimica) ma anche l’ambiente (energia fisica).

Anche se complesso mi sembra sufficientemente comprensibile il fatto che con gli alimenti, scissi nei processi metabolici, viene “introdotta” energia da usare per le funzioni vitali ma non è altrettanto chiaro come l’ambiente possa fornire direttamente energia fisica al corpo.

Certo non in modo diretto, ma attraverso l’attivazione di particolari strutture nervose specializzate dette recettori. Anzi, è proprio dall’elaborazione degli innumerevoli dati derivanti dalle infinite variazioni energetiche del raffinatissimo sistema sensoriale che l’essere umano ha sviluppato la sua singolare modalità di essere al mondo. Cerco di essere più chiaro:

la realtà esterna può essere conosciuta dall’uomo solo perché i suoi recettori sensoriali vengono attivati dai particolari tipi di energia esistenti nell’ambiente (Energia luminosa, termica, chimica, meccanica, elettrica o magnetica) dunque ciò che noi chiamiamo realtà altro non è se non quel particolare segmento dell’esistente le cui emissioni energetiche corrispondono al range di funzionamento dei nostri recettori o delle nostre ”protesi tecnologiche” quali microscopi, telescopi, rilevatori di raggi x, registratori di onde ecc che abbiamo costruito per captare ulteriori segnali non direttamente percepibili dai sensi).

Ad esempio un ago che punga la cute od una carezza che la sfiori, altro non sono che trasferimenti di energia cinetica da un corpo in movimento, cioè dotato di una certa quantità di energia cinetica, ai barocettori cutanei; il colore di un fiore o la melodia d’una composizione musicale sono trasferimenti di energia di onde agli specifici recettori retinici od acustici; l’odore di un inebriante profumo in ultima analisi non è che il trasferimento di energia chimica da una molecola particolare ai recettori olfattivi. Ovvero, lo scambio energetico rappresenta l’input che mette in moto un complesso meccanismo di trasmissione nervosa, attraverso l’eccitazione di specifici recettori.

Ma… con tutte queste immagini mi sembra che siamo scivolati dal campo delle realtà scientifiche a quello delle “emozioni”. C’è il rischi che con questo metodo di ricerca possiamo perdere la poesia e ridurre ciò che dà senso alla vita a semplici trasferimenti di energia?

No! Certamente no, anzi sono assolutamente d’accordo nell’affermare che le emozioni, il modo totalmente irrazionale di viverle, siano la base di ciò che fa caratteristica ed unica la vita umana, sino a dire che esse sono alla base del pensiero, anche di quello che ci piace definire “razionale”. Ciò non toglie che il primo momento del complessissimo processo sensazione-emozione-percezione-conoscenza-pensiero è costituito dal semplice squilibrio determinato dall’impatto di una qualsiasi forma di energia con i terminali del nostro sistema sensoriale. Tale evento determina un incremento energetico, una irritazione, capace di innescare una sorta di reazione a catena che interessa innumerevoli strutture nervose, sia del sistema senso-motorio che del sistema neurovegetativo e, successivamente tutti gli altri sistemi (endocrino, immunitario, psichico). Tale meccanismo è comune a tutti gli animali viventi. Ciò che fa diverse le varia specie sino all’uomo non è il meccanismo fondamentale, ma il modo in cui tutto il processo è percepito, vissuto, dalle diverse specie. Dunque il processo base che ha permesso lo sviluppo dal semplice riflesso assonico, (cioè la più semplice risposta motoria ad una stimolo tattile), alla più alta espressione di fantasia, è rappresentato dalla necessità di riportare all’equilibrio un sistema in cui l’ambiente ha determinato un incremento di energia. Ciò che permette all’uomo di rispondere con una poesia all’attivazione dei corpuscoli del Pacini o di Meissner (recettori tattili) da parte dello sfregamento di una mano amorosa è la capacità tipicamente umana di attribuire “senso” a semplici eventi fisico-chimico-biologici.

Questa irritazione attiva una corrispondente reazione ed allora è proprio attraverso questa necessità naturale di ripristinare sempre un nuovo equilibrio energetico interno di fronte a qualsiasi alterazione che si realizza ciò che noi chiamiamo “rapporto col mondo”.

Possiamo cominciare a parlare dell’anima?

Se accettiamo l’origine materiale della realtà umana e delle sue manifestazioni dobbiamo abbandonare il termine anima, che nella cultura diffusa ha una connotazione eminentemente religiosa, e più propriamente cominciare a parlare di “Psiche”, il che significa che essa non è “altro” rispetto alla realtà materiale del corpo vivente ma che ne è una sua speciale espressione emergente dallo specifico modo in cui le strutture nervose che si correlano a tutte le “intelligenze” del corpo  “leggono” le interazioni col mondo esterno e con l’umano altro da sé.

Allora un metodo per comprendere come si articolino i vari processi relativi all’attività delle strutture e sistemi verosimilmente interessati alla formazione della realtà psichica, potrebbe essere quello di studiare le modalità attraverso cui, dopo la nascita, l’energia proveniente dall’esterno viene processata sin dai primi momenti di attività delle strutture nervose in formazione.

Seguire cioè la storia dell’energia, dal momento in cui, per un bizzarro evento in cui due esseri umani si scambiano del materiale genetico, la crescita dell’entropia viene momentaneamente arrestata per costruire un’entità che lotta per accrescere la propria energia interna (entalpia), sino al momento in cui il termine della dinamica energetica detto morte dell’essere vivente, restituisce all’entropia la facoltà di crescere indefinitamente. La vita così potrebbe essere definita come la dinamica energetica tra il momento del massimo dell’entalpia, cioè il momento della nascita che rappresenterebbe il massimo delle potenzialità umane, ed il massimo dell’entropia, cioè la morte dell’individuo che ha consumato tutta la sua energia interna per definirsi, sino al momento in cui essa diviene insufficiente per mantenere l’aggregazione molecolare di ciò che può essere stato oggetto e fonte di amore, di creatività, di arte.

RIFLESSIONI SULLE MEDICINE ALTERNATIVE

 

Dr. Carlo de Michele

6 gennaio 2015

 

L’ampia diffusione delle “Medicine non convenzionali” è il segno di una diffusa e crescente insoddisfazione del pubblico nei confronti della “Medicina scientifica” (più propriamente definita “Medicina Basata sull’Evidenza” -EBM-), anche se, di fronte ad eventi di particolare gravità, ben pochi accettano di rinunciare   ad un ricovero ospedaliero con tanto di terapie allopatiche in nome di una ortodossia alternativa.

L’ “altra medicina” sembra quindi riferirsi preferibilmente alla gestione dei disturbi di difficile definizione o al contenimento delle manifestazioni di cronicità che, pur se non minacciano la vita, hanno la capacità di renderla penosa.

Ed è proprio in questi ambiti che il paziente non trova facilmente dalla Medicina Basata sull’Evidenza le risposte che desidera avere: egli percepisce il dolore della “sua” malattia, sente di soffrire globalmente in quanto persona e non in quanto possessore di un organo malato e non ritiene adeguato essere considerato, quando va bene, “un caso di…” frutto dell’applicazione di un protocollo diagnostico.

La medicina tradizionalmente scientifica è figlia dell’applicazione del metodo galileiano, quello cioè che, rigidamente basato sul principio di causa-effetto, ha avuto il grande merito di aver separato il concetto di malattia fisica da quello metafisico-religioso di Male, di aver concepito la terapia per la guarigione e di averla distinta dalle pratiche empiristiche, di aver consentito lo sviluppo delle tecnologie diagnostico-terapeutiche oggi indispensabili, di aver spinto la conoscenza sino alla biologia molecolare ed alla genomica.

Oggi però, questa impostazione del pensiero medico mostra i suoi limiti, da una parte nel non essere sufficientemente duttile per affrontare una ridefinizione delle conoscenze medico-biologiche sulla base della teoria della complessità, dall’altra nell’essersi asservita eccessivamente alle leggi di mercato.

In tal modo la Medicina Scientifica finisce per entrare in conflitto proprio con quegli sparuti gruppi di liberi ricercatori che, considerando il corpo umano come la massima espressione della “complessità” (cioè di un sistema il cui senso è qualcosa in più della somma dei suoi componenti), esprimono la punta avanzata della ricerca bio-medica mentre lascia spazio a chi, magari sulla base di intuizioni parziali, propone metodiche terapeutiche intrise di elementi emotivo-filosofico-empirici.

Se un individuo è tale perché esprime la sua capacità di vivere in modo assolutamente singolare pur se i suoi organi e la loro organizzazione complessiva sono pressoché identici in ogni elemento della stessa specie, ne consegue che la malattia non può essere definita in modo completo da una serie di dati quantitativi che indicano lo stato morfo-funzionale dei suoi apparati. E’ necessario capire in che modo un certo organo alterato si relazioni a tutto il resto del corpo, in che modo il “sistema” stia rispondendo a tale evento, in che modo questo processo rappresenti una riduzione di capacità vitale per l’organismo e sofferenza per l’individuo.

Dunque, secondo questa nuova visione, è importare prestare attenzione anche ai sistemi di comunicazione attraverso cui le parti del corpo scambiano informazioni sullo stato funzionale per mantenere un valido equilibrio interno, nel rapporto continuo con l’ambiente esterno.

L’uomo, come tutti i “sistemi aperti”, è immerso in un continuo flusso energetico, in stretta relazione con l’ambiente, poiché deve assorbire energia per il mantenimento del proprio equilibrio e rilasciare i prodotti di scarto in un processo ecologico che coinvolge in una stretta rete tutti gli esseri viventi, poiché gli scarti di una specie rappresentano la fonte energetica di un’altra, secondo un ciclo continuo che non può essere interrotto in nessun punto senza che tutta la rete ne soffra gravemente.

Considerare che questi processi si svolgano secondo i principi della complessità significa capire che uno stimolo (qualsiasi elemento che entri in un organismo, come energia, sostanza chimica, germi, traumi ecc.) può determinare nei diversi individui risposte diverse di intensità non necessariamente proporzionali all’intensità dello stimolo e che risposte simili possono essere determinate (in individui diversi come nello stesso individuo) da cause diverse.

 

E’ ovvio che applicando solo la diagnostica convenzionale non è possibile affrontare tali problemi, e che è necessario riuscire a capire in che modo in ogni singolo individuo una certa causa sia arrivata a produrre un determinato sintomo.

Questa impostazione sta conquistando spazi presso taluni immunologi e neurologi che stanno affrontando i problemi della terapia attraverso la immuno o la neuro modulazione con notevoli successi in campo sia teorico che pratico. Sta diventando così possibile superare il concetto tanto caro all’industria farmaceutica che ogni disturbo sia legato ad una precisa e specifica causa e che quindi possa essere curato con una nuova e specifica molecola.

Ovviamente a questi risultati si è arrivati attraverso l’applicazione dei concetti di complessità alle più recenti acquisizione in campo di neuroscienze e di immuno-endocrinologia.

Sembra quindi di poter affermare che oggi comincia ad essere possibile superare l’apparente antinomia tra certezza scientifica e indeterminatezza soggettiva; possiamo forse pensare che sia finita la condanna a scegliere solo tra il riduzionismo scientista, che di fatto annulla la realtà individuale, e le interpretazioni filosofico-religiose che, anche se più prossime al sentire individuale, sono prive di condivisibilità universale.

 

Credo però che, quando si assumono responsabilità nei confronti della vita di altri essere umani, sia indispensabile esprimere comportamenti che siano dotati di tutti i requisiti necessari a renderli affidabili.

 

Ciò significa che, nel caso di comportamenti medici, è necessario che siano rispettate alcune irrinunciabili regole di coerenza: che ogni atto derivi dalla conoscenza più profonda possibile della fisiopatologia e quindi sia coerente con una specifica teoria; che l’effetto ottenuto sia effettivamente prodotto da ciò che è dichiarato agente terapeutico e non da qualsiasi altro fattore concomitante o latente; che esso si manifesti attraverso un meccanismo di azione (secondo regole lineari o complesse che siano) comunque dimostrabile; che gli effetti constatati corrispondano agli effetti attesi e che non si sovrappongano ai processi di guarigione spontanea o all’effetto placebo.

E’ necessario che tutto sia accettabile non per fede, per tradizione o per autorità della fonte ma per la possibilità di verificare o falsificare (criticare) il processo di pensiero che lo ha generato in funzione di un metodo dichiarato.

Questa esigenza di coerenza non significa l’automatica esclusione di qualsiasi pratica terapeutica basata sull’empirismo o su antiche tradizioni: significa che, al lume delle conoscenze ora disponibili, è necessario sottoporre qualsiasi sapere al vaglio di attente ricerche, verifiche, attraverso metodiche capaci di valutare anche aspetti qualitativi e non solo quantitativi (statistici) per ciò che attiene alla percezione di salute.

 

Al di fuori di questi requisiti minimi di credibilità non fideistica, non possiamo affermare di trovarci di fronte a comportamenti medici, ma a rapporti interpersonali, talvolta interpretabili come particolari forme di alleanza terapeutico-consolatoria, che, pur se dotati di effetti pratici a volte considerati positivamente, hanno il grave difetto di nascondere dinamiche psicologiche il cui valore non si esaurisce nella eventuale scomparsa di un certo sintomo.

Talvolta le pratiche mediche non convenzionali, più o meno consapevolmente, scivolano nel campo della pura empatia. Attraverso un malinteso olismo medico e paziente convergono sull’idea che un approccio medico più umanamente disponibile e una diagnosi posta non attraverso l’impersonale approssimazione statistica degli strumenti tecnologici, ma secondo pratiche più o meno ritualizzate, porti automaticamente alla comprensione delle sofferenze più personali. La terapia poi, proposta attraverso interventi dolci, spesso estremamente ritualizzati, dovrebbe poi portare non solo alla scomparsa del sintomo, ma anche alla riconquista della serenità e percezione di benessere.

Sono d’accordo sul fatto che milioni di persone trovino tutto ciò assolutamente positivo e che considerino i limiti di questi metodi certamente preferibili ai possibili danni derivanti da errori diagnostci o alla enorme quantità di effetti indesiderati da farmaci.

Tuttavia credo di dover stigmatizzare i gravi rischi che si corrono sia quando il contenimento di un sintomo può pericolosamente ritardare un intervento decisivo su una patologia fisica grave, sia quando una somatizzazione può essere l’unico segno che un attento psichiatra potrebbe valutare per cogliere la latenza di una psicopatologia anche grave, assolutamente sconosciuta (o annullata) dal paziente, dai famigliari o anche dal medico curante.

In conclusione, per arrivare alla tanto agognata “medicina dal volto umano” credo che sia necessario un grande sforzo da parte di chi voglia esercitare la professione medica: è necessario possedere una solida formazione scientifica, poiché sono innegabili i successi della conoscenza basata sui principi lineari della fisica newtoniana senza però negare il cambiamento di paradigma imposto dal progredire delle conoscenze proprio nel campo della fisica. E’ però altresì necessario sviluppare anche il lato così detto empatico portandolo sempre più verso la comprensione della realtà psichica del singolo paziente alla luce degli ormai innegabili elementi chimico biologici che correlano lo stato psichico con manifestazioni ancora oggi così sfuggenti come ad esempio le malattie croniche, le malattie degenerative e le malattie autoimmuni.

 

 

 

 

 

I farmaci servono per debellare le malattie o le malattie servono per vendere farmaci?

 

Carlo de Michele

29 maggio 2010

 

Il 9 Giugno 2006 l’EMEA (l’ente Europeo per l’approvazione dei farmaci) ha consentito l’uso del Prozac nei bambini a partire dall’età di 8 anni affetti da sindrome depressiva, anche se con l’obbligo di iserire un “warning” nei confronti del possibile incremento delle tendenze suicidali ed un invito ad iniziare il trattamento farmacologico solo dopo il fallimento del trattamento psicologico articolato in 4-6 sedute (!).

Tale decisione arriva circa due anni dopo quella della FDA (l’analogo ente americano) che ne ha sollecitato l’uso nei bambini al di sopra dei 6 anni.

Alla fine di Agosto il New Scientist ed il Washington Post hanno pubblicato un articolo attraverso il quale hanno rivelato che il 60% degli scienziati a cui dobbiamo la stesura del DSMIV, ovvero il manuale di riferimento della psichiatria internazionale, ricevono a vari titoli, finanziamenti dalle industrie produttrici di psicofarmaci. Tale percentuale sale poi al 100% se ci si riferisce al gruppo che ha classificato i disturbi che devono essere presi in considerazione per la diagnosi di schizofrenia.

All’inizio di Settembre è uscito per i tipi de Il Saggiatore il libro “Farma&co”di Marcia Angell medico internista, già direttrice del New England Journal of Medicine, il più autorevole tra i giornali scintifici medici, attualmente docente alla Harvard Medical School, che denuncia con dovizia di inconfutabili documentazioni, le gravissime influenze politico-economiche che interferiscono pesantemente con le decisioni della FDA nella valutazione e nelle indicazioni dei farmaci.

 

Al di la delle valutazioni etiche o legali, da queste denuncie emergono alcuni problemi di fondo che è doveroso evidenziare che:

la pura legge di mercato applicata ai problemi della salute può dare risultati perversi.

 

La malattia può essere considerata come un momento di crisi in cui un individuo si pone fuori dal contesto sociale e produttivo manifestando un bisogno primario. Dato il valore che le culture attribuiscono al singolo individuo pressochè tutte le società civili si assumono il carico solidale di garantire a tutti il mantenimento dello stato di salute. Dunque un elemento terzo si frappone tra chi manifesta un bisogno e chi è in grado di provvedere al suo soddisfacimento. Se si decide di regolare i rapporti tra gli interessati secondo le regole di mercato si realizzano gravi incongruenze. Mentre lo stato, che gestisce il danaro pubblico, dovrebbe muoversi secondo principi di solidarietà gestendo le risorse nel modo più oculato possibile, il fornitore di servizi Il mercato infatti non ha come fine intrinseco il benessere della persona ma semplicemente il profitto. In funzione di ciò l’industria farmaceutica non ha alcun interesse a finanziare ricerche allo scopo di incrementare la conoscenza ma è ovvio che sia interessata a ricerche che abbiano come oggetto la realizzazione di nuovi farmaci (o di nuove presentazioni dello stesso farmaco).

Da ciò si giunge al paradosso che nuove malattie sono codificate in funzione di nuove molecole lanciate sul mercato. Come può avvenire tutto ciò? Molto semplicemente: basta indire una “consensus conference” in cui autorevoli scienziati convengono che un disturbo rappresenta una entità nosologica da curare con un farmaco, oppure che un allontanamento dalla norma di un valore non può essere considerato una variabile, ma il segno premonitore di una malattia da prevenire con l’uso cronico di un farmaco. (vedi farmaci anticolesterolo, anti osteoporosi ecc)

 

 

 

I DUE “INTERRUTTORI” DELLA VITA

 

Carlo de Michele

8 Dicembre 2007

 

Nei primi giorni di Dicembre ha trovato ampio spazio sulla stampa quotidiana la notizia che gli esperti di Medicina Perinatale stanno si sono riuniti per formulare le Linee Guida di comportamento nei riguardi dei nati prematuri. Questo documento si basa sulle esperienze del Prof. DONZELLI, neonatologo dell’Ospedale Meyer di Firenze e coautore della “Carta di Firenze” 2004, primo “tentativo di scrivere linee guida sull’accanimento terapeutico sui prematuri”. In accordo con quanto è ormai prassi in molti paesi del nord europa in cui non si pratica mai rianimazione prima del compimento della 23° settimana, il Prof. Donzelli afferma che “La zona del buio è la ventiduesima settimana, dalla 23 alla 24 è una zona grigia, dopo la 24ma si rianima”. Anche Claudio Giorlandino, presidente della Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno fetale afferma che    “la qualità della vita nei prematuri è bassa. I danni cerebrali da prematurità, come le emorragie cerebrali, sono frequenti con conseguenti i danni neurologici” e quindi nel giudizio terapeutico non bisogna basarsi esclusivamente sulle possibilità tecnologiche ma sulla qualità della vita che dagli atti terapeutici consegue.

Ovviamente l’articolo pubblicato dal Corriere della Sera ha prodotto una serie di risposte polemiche da parte di religiosi e moralisti, quali la Senatrice BINETTI, Savino PEZZOTTA, Mons Esilio TONINI.

 

Stabilire un limite per l’intervento di rianimazione del neonato significa che possibile individuare con certezza in quale momento della gestazione il prodotto del concepimento acquista una capacità di vita autonoma. Ciò costituirebbe un supporto difficilmente confutabile a vantaggio sia della terapia intensiva dei feti prematuri sia della opinabilità della legge 194 che pone un limite generico all’aborto terapeutico con   la dizione “possibilità di vita autonoma del feto”.

 

Oggi infatti sembra possibile stabilire questo limite non basandosi solo sull’osservazione clinica ma anche in funzione di recentissime scoperte nel campo della embriologia.

 

Nel Dicembre 2005 è stato pubblicato un lavoro scientifico in cui Inoki e AA: hanno dimostrato che esiste un preciso momento in cui il prodotto del concepimento acquista una capacità di vita autonoma. Esso è esattamente intorno alla 24° settimana allorché arriva a completamento una via nervosa che ci era ancora sconosciuta. Questa mette in contatto diretto   un nucleo cerebrale detto “Nucleo soprachiasmatico” con la parte corticale della ghiandola surrenale.

Il Nucleo soprachiasmatico, alla nascita, viene   stimolato dai recettori della retina, l’impulso nervoso viene condotto direttamente alla corteccia surrenale che viene attivata a rilasciare nel sangue i suoi prodotti.

Questo fenomeno, comune a tutti i mammiferi, può essere considerato come un vero e proprio “interruttore della vita” poiché da esso dipende la partenza del tempo umano, cioè la sincronizzazione degli orologi interni come quello del ritmo sonno veglia, i ritmi digestivi, l’attività ritmica delle ghiandole interne, il ritmo respiratorio.

Dunque, prima della realizzazione di questo circuito, attivatore della vita animale, qualsiasi rianimazione è destinata al fallimento.

Ma se stabilire l’inizio della possibilità di vita “animale” è sufficiente ai neonatologi non è di grande aiuto a chi deve interessarsi di interruzione di gravidanza. Chi si oppone a qualsiasi forma di aborto si appella al principio del Rispetto della vita, ma poiché anche il migliore dei cristiani non disdegna di interrompere molte vite biologiche (vegetali ed animali) in funzione dei suoi bisogni alimentari sarà necessario cercare di stabilire quando la vita animale si trasforma in VITA UMANA.

Ancora una volta è proprio seguendo le stimolazioni retiniche da parte della luce che possiamo avere una risposta.

Alla nascita come abbiamo visto gli stimoli luminosi arrivano al nucleo soprachiasmatico; da qui prendono due strade:una porta, come abbiamo visto, sino alla corteccia surrenale, l’altra alla parte posteriore del cervello dove, a causa della immaturità della corteccia cerebrale non possono essere tradotti in immagini precise. L’impulso luminoso si diffonde a tutta la corteccia cerebrale in modo aspecifico determinando un momentaneo blakout. Il bambino apre gli occhi alla luce con qualche attimo di ritardo: sembra quasi dormire di un sonno che può ormai solo sognare ciò che ha appena lasciato. Sono le manipolazioni della levatrice che lo porteranno al suo nuovo mondo. Ma la cosa più importante è proprio quel momento di non presenza che gli permette di cominciare una attività di tipo immaginativo, elemento discriminante con qualsiasi altro animale, che si costituisce come base della capacità umana di pensare.

Dunque abbiamo gli elementi per affermare che la vita animale non può iniziare prima della 24° settimana di gestazione, e che la vita animale diventa umana alla nascita in funzione del modo tipicamente umano di reagire alla luce

 

Carlo de Michele

Aprile 2005

Clinica e semeiotica posturale sportiva.

 

Può sembrare strano parlare di postura, il cui oggetto è l’uomo in atteggiamento statico, in un contesto sportivo, il cui oggetto è la dinamica sino alle sue espressioni più specializzate.

Lo sarà di meno se consideriamo la postura come l’atteggiamento di base a cui tendono tutti gli squilibri che determinano il movimento: il camminare o il correre possono infatti essere immaginati come una serie di oscillazioni caratterizzate dalla momentanea uscita della proiezione a terra del baricentro del corpo dal poligono di appoggio e dalle reazioni delle forze che tendono a riportarlo all’interno.

Dunque una definizione di postura potrebbe essere quella di :”atteggiamento del corpo, corrispondente ad un a precisa rappresentazione cerebrale, a cui si tende dopo ogni alterazione dell’equilibrio”, in armonia con quanto intuito da Alexeef e Nayadel nel 1973.

La postura sarebbe dunque quell’organizzazione globale del rapporto tra i segmenti cui il corpo fa continuo riferimento durante l’esecuzione di qualsiasi gesto che lo allontani dalla posizione di equilibrio teorico.

E’ intuitivo quanto una corretta postura sia essenziale per uno sportivo!

 

Ma questa altro non è che una delle molte possibili definizioni di una realtà evidentemente molto difficile da definire.

Allora cerchiamone un’altra: “la postura è la condizione in cui il corpo riesce a mantenere col dispendio energetico minimo una oscillazione continua attorno al teorico punto di equilibrio, tenendo conto continuamente delle variazioni dell’ambiente sia interno che esterno, e da cui può uscire per iniziare un movimento con la maggiore efficienza possibile”.

Ciò vuol dire che esiste una condizione teorica in cui i vari segmenti corporei possono resistere alla forza di gravità senza usare l’energia delle contrazioni muscolari ma usando la sola forza elastica di legamenti e capsule articolari, un po’ come un’asta in equilibrio sulla punta d’un dito.

L’aver accennato alle continue oscillazioni vuol significare che alla condizione ideale a cui ho prima accennato si oppongono costantemente stimoli che provengono dall’ambiente esterno o interno, come la variazione del campo visivo, la modificazione del piano di appoggio, la modificazione dall’ambiente acustico, le variazioni termiche, i cambiamenti relativi al ritmo respiratorio, al ritmo cardiaco, allo stato emotivo, alla presenza di un qualsiasi focus infiammatorio cioè stimoli anche modestissimi dal punto di vista energetico.

A questi stimoli un corpo sano reagisce senza ricorrere alla muscolatura volontaria (fasica, ad alto dispendio energetico, poco resistente alla fatica) ed agli schemi di movimento corticali coscienti, ma alla muscolatura posturale inconscia (tonica, a basso dispendio energetico, molto resistente alla fatica) attivata da riflessi.

La dinamica dei riflessi posturali non è lineare, vale a dire che la risposta non è direttamente proporzionale allo stimolo (come avviene ad esempio per i piatti d’una bilancia il cui spostamento è direttamente proporzionale al peso poggiato), ma è il risultato di una complessa processazione di dati che dà luogo ad una serie di meccanismi di feedback (riadattamento interno in funzione della risposta allo stimolo) e di feedforward (adattamento in previsione dello stimolo secondo modelli comportamentali preacquisiti).

E’ importante accennare al fatto che il comportamento del corpo umano può essere assimilato a quello dei sistemi complessi in cui un piccolo stimolo può elicitare una grande risposta o viceversa, in cui stimoli diversi possono provocare risposte uguali ed in cui stimoli uguali in diverse condizioni spazio temporali possono provocare risposte diverse.

In particolare, in ambito posturologico, ciò che noi definiamo “sindrome” è sempre il risultato di piccoli stimoli   che a lungo andare superano le capacità di compenso, così come elementi terapeutici sono ancora piccoli stimoli che inducono nuovi adattamenti capaci di ridare all’organismo possibilità di compenso.

 

In generale possiamo dunque dire che il “sistema corpo” è un sistema aperto all’influenza di fattori esterni e dotato di grandi capacità di adattamento. Dunque, dall’interazione tra questi elementi deriva la specificità, anzi l’unicità di ogni essere umano.

Ne consegue che anche le malattie sono caratterizzate da una specificità, (cioè assumono caratteristiche diverse nei diversi individui) e che quelle che noi definiamo sequele sintomatologiche di malattie altro non sono che l’insieme di eventi che raccolgono la maggiore probabilità statistica di verificarsi, a partire dalle caratteristiche storiche individuali, dalla specifica capacità reattiva e dalla potenzialità lesiva della noxa.

 

 

 

Il piede nella “tattica della caviglia”

 

 

Le oscillazioni posturali sono rese possibili, oltre che dai sopracitati meccanismi neurologici, dalla conformazione biomeccanica dell’articolazione tibio-peroneo-astragalica (ATPA).

La pinza tibio-peroneale si articola coll’ astragalo che consente movimenti di flesso- estensione (oscillazioni sul piano sagittale) e movimenti di lateralità (oscillazioni sul piano frontale).

Nella posizione eretta l’ATPA rapresenta il fulcro di una coppia di forze rappresentate dalla forza peso applicata a livello del baricentro del corpo che si proietta a livello delle tarsometatarsiche surale (muscolo a ricca componente tonica) col suo tendine d’inserzione calcaneare (t. di Achille).

Questo tipo di oscillazioni sono possibili quando il piede poggi su di un piano rigido mediante l’appoggio a tre punti. Se invece l’appoggio si realizza per mezzo della volta plantare su di un sostegno a margine sottile la caviglia non riesce più a gestire il gioco delle forze ed allora il mantenimento dell’equilibrio è possibile solo cambiando tattica e spostandosull’anca la gestione delle forze.

Questo breve accenno alle tattiche che il corpo umano usa per gestire l’equilibrio serve ad indicare che tale operazione è l’espressione di un sistema complesso, cioè di un sistema non isolato (in cui, cioè, tutte le parti componenti sono in interazione reciproca) e sottoposta a continui influssi provenienti da altri sistemi e sottosistemi, che per seguire la strategia dell’equilibrio (mantenere cioè la proiezione del baricentro all’interno del poligono di appoggio) si serve delle tattiche di volta in volta più opportune per far funzionare i suoi meccanismi di controllo e previsione.

La postura è l’espressione di un sottositema del grande sistema dell’equilibrio, è gestita da strutture specifiche e viene comunemente indicata col nome: Sistema Posturale Fino (SPF).

Per SPF dunque si deve intendere non un organo od un apparato, tanto meno una localizzazione neuronale specifica, ma una funzione complessa che riguarda numerosissime strutture del Sistema Nervoso, di cui noi osserviamo l’espressione finale.

In questo ambito una sindrome posturale non può essere considerata come una conseguenza di una lesione d’organo, ma come l’espressione manifesta dell’alterazione di una organizzazione funzionale ( Sindrome da deficit posturale, secondo la dizione di Da Cunha)

 

In ambito posturale noi possiamo osservare disfunzioni non correlate ad un  danno anatomico primario.

 

 

Il Sistema Posturale Fine

 

Come abbiamo appena accennato con la dizione SPF si intende una organizzazione funzionale complessa in cui individuiamo una serie di informazioni in entrata ( dati che provengono dall’attivazione di recettori periferici) che vengono processate tra loro e raggiungono differenti centri del sistema nervoso centrale da cui emergono segnali in uscita capaci di mantenere le oscillazioni stocastiche del corpo all’interno del centro ideale del poligono di appoggio (una ellissi di circa 100 mm. di diametro).

L’attività posturale è indipendente dall’attività dei canali semicircolari,: poichè le oscillazioni posturali si manifestano all’interno di una ellissi con raggio intorno ai 2°, limite entro il quale essi non reagiscono. Comunque se le oscillazioni superano il limite di 4° istantanee contrazioni dei muscoli fasici intervengono per riportare il centro di pressione (punto a terra in cui viene proiettato l’asse passante per il baricentro) all’interno dell’ellissi posturale.

Le informazioni che il SPF deve integrare provengono da recettori specifici preposti alla registrazioni dei eventi esterni (esocettori) come le informazioni provenienti dalla retina o dai meccanocettori plantari, o alla registrazione di eventi interni (endocettori) cioè le informazioni sullo stato di tensione di muscoli, tendini e capsule o sulla velocità angolare delle articolazioni.

Attraverso vie nervose specifiche le informazioni giungono ai gangli spinali dorsali ove avvengono importanti integrazioni di segnale, per poi entrare nel midollo spinale ove avvengono fenomeni di amplificazione o abbassamento del segnale, diffusione controlaterale o ai metameri sopra o sottostanti, sommazione con segnali provenienti da altri distretti metamerici o anche dai visceri, (integrazione con segnali provenienti dal Sistema Neuro Vegetativo). Vie spinali conducono il segnale al Talamo, al Cervelletto, alla Corteccia, ove il segnale viene ulteriormente integrato per poi giungere ai nuclei della Sostanza Gelatinosa di Rolando da cui partono la maggior parte dei segnali regolatori per i muscoli tonici.

E’ importante ricordare che quando si parla di riflessi posturali non dobbiamo riferirci al modello di arco diastaltico, come ad es. il riflesso patellare, ma sempre a reazioni complesse che, a partire da informazioni contemporaneamente giunte da organi recettoriali diversi, vengono integrate per dare una risposta inconsapevole. Infatti per poter vedere un riflesso posturale puro l’animale da esperimento deve essere spinalizzato (devono essere interrotte chirurgicamente tutte le vie che collegano la corteccia al sistema spinale).

 

Sistemi di indagine della Postura

 

Prima di procedere all’esame clinico è importante raccogliere una accurata anamnesi specialmente per ciò che riguarda la storia traumatologica, gli interventi chirurgici e le anestesie sopportate, l’eventuale presenza di episodi di perdita di coscienza più o meno prolungata, l’abitudine ad assumere farmaci, l’esistenza di patologie ortopediche o generali in atto.

 

La Postura può essere osservata nella sua espressione globale, cioè nel modo in cui il paziente sta in piedi di fronte a noi: in questa fase osserveremo gli assi di simmetria verticali ed orizzontali, gli allineamenti degli arti, la presenza di deformità, paramorfismi o evidenti abnormi tensioni dei muscoli fasici. Sarà opportuno notare la presenza di cicatrici cutanee.

E’ molto difficile e forse impossibile valutare la funzione posturale in termini assoluti ed oggettivi, essendo essa l’espressione della singolarità di ogni individuo. Riteniamo che sia però altrettanto utile valutarne l’armonia, cioè valutare se i comportamenti posturali di quello specifico soggetto sono armonici e se rappresentino l’espressione di un utile compenso delle problematiche relative alla anamnesi del soggetto in esame.

Un buon aiuto ci viene dall’uso di pedane stabilometirche (diverse dalle pedane baropodometriche che sono in grado di fornire informazioni qualitative rispetto alla distribuzione dei cariche durante la stazione eretta e la deambulazione), che attraverso l’applicaione di specifici algoritmi sono in grado di valutare le caratteristiche delle oscillazioni a livello di diverse stazioni del corpo.

Ma regina dell’esame posturale è la clinica che, osservando come si trasmettano alcuni stimoli capaci di accendere risposte toniche riflesse, può cogliere informazioni sulla capacità funzionale del SPF.

Questi test si basano sulla capacità di particolari recettori ad essere stimolati da particolari manovre: ad esempio il test dei rotatori studia la risposta di recettori sensibili alla velocità di stiramento muscolare in funzione della viscosità; il test di convergenza podalica invece studia la risposta dei recettori sensibili all’ampiezza dello stiramento in funzione dell’elasticità muscolare.

Le modalità di esecuzione dei due test sono simili: per il primo si afferrano i talloni del soggetto sdraiato supino a gambe tese e leggermente divaricate, si imprimono quattro movimenti di rotazione interna dei piedi in modo piuttosto veloce e regolare e si osserva infine se c’è differenza di posizione dei piedi: quello meno intrarotato indica un ipertono dei muscoli extrarotatri dell’anca.

Il secondo ha la stessa posizione di base, si afferrano i piedi e si imprime un solo movimento lento di intrarotazione dei piedi:quello meno intrarotato indica l’ipertono. Di norma i due test danno risposte opposte nello stesso paziente. I test possono essere ripetuti introducendo elementi di complessità quali la rotazione della testa, la rotazione dello sguardo o la diduzione mandibolare, per avere ulteriori informazione sul funzionamento del SPF.

 

Uno dei test che offre più informazioni è il test Posturo dinamico, che si prefigge lo scopo di valutare come le alterazioni di tono principalmente dei muscoli paravertebrali influenzino l’armonia del movimento vertebrale.

E’ noto che la inclinazione della colonna a livello dorsale e lombare non può avvenire se non in concomitanza con una rotazione controlaterale. Valutando tali movimenti, nel momento in cui si sia raggiunta una buona sensibilità clinica è possibile avere informazioni importanti sullo stato di funzione posturale e del livello in cui si presenti al momento l’alterazione tonica prevalente.

Sempre nella stazione eretta è possibile valutare l’armonia podo-pelvica: poiché l’oscillazione laterale del bacino a gambe lievemente divaricate si accompagna ad un ampio ed armonico movimento di anteposizione omologa dell’ala iliaca, alterazioni di questo movimento, sempre quando si sia acquisita una buona sensibilità, ci può dare indicazioni sull’esistenza di una spina irritativa podalica e ci permette di localizzarla. Permette inoltre di valutare l’efficacia di un provvedimento terapeutico e se una ortesi plantare ha o meno influenza sull’equilibrio posturale.

Come risulta dall’esposizione non ritengo sia più molto giustificato il concetto di lesione ascendente, discendente poiché concettualmente la postura rappresenta il risultato di un adattamento dinamico e non di una lesione stabile, organica, che comporti l’organizzazione di catene lesionali, lasciando questo tipo di logica allo studio delle lesioni osteopatiche.

Che tale impostazione sia corretta è dimostrato dalle più recenti scoperte nell’ambito delle neuroscienze cui in questa sede non è possibile nemmeno accennare per la loro complessità

 

Questi semplici test, se eseguiti con opportuna perizia, permettono di formulare diagnosi di deficit posturale in persone scevre da affezioni organiche o strutturali, che presentino sintomatologia instabile, a volte mal definibile, vertigini soggettive, cefalee ricorrenti, dolori mialgici diffusi, cervico-dorso-lombalgie, dolori strani agli arti inferiori, difficoltà visive, ma non dovremo stupirci di fronte alla comunicazione di dolori di qualsiasi tipo, talvolta anche viscerali, ricordiamo, in persone globalmente sane.

Nello sportivo questi test dovrebbero essere addirittura somministrati in fase di visita di idoneità poiché spesso questi soggetti hanno grandi capacità di compenso ad opera della muscolatura volontaria e quindi possono presentarsi con importanti deficit posturali completamente asintomatici. In questi casi dunque una visita posturale approfondita può avere valore predittivo su possibili patologie degenerative o da carico poiché lo sportivo, se pure apparentemente in buona salute si trova in realtà a sovraccaricare in modo scorretto ed in modo notevole le sue strutture articolari a causa della sua notevole forza muscolare.

Inoltre per uno sportivo una buona propriocezione è indispensabile non solo ai fini del mantenimento di un buono stato di salute, ma anche ai fini di una più corretta ed automatica esecuzione dei complessi gesti specifici.

 

 

 

 

 

 

 

LA REALTA’ UMANA: ESPRESSIONE ARMONICA DI COMPLESSITA’ BIOLOGICHE E CONTENUTI PSICHICI.

Carlo de Michele

“Il Sogno della Farfalla” 2,1994  

 

Dacché l’uomo è uomo si è trovato a dover navigare angosciosamente tra i gorghi della sapienza certa del mondo materiale, che svanisce all’arrivo di Morfeo, e della sapienza vana del mondo dei sogni, che svanisce all’arrivo di Eos.

Quale dio ingraziarsi per avere garantita la possibilità di abbracciare ora l’una ora l’altra senza rischiare la sicurezza dell’ essere?

Il matrimonio che costringe ad abbandonare l’amante è causa di angoscia esistenziale.

Ma il bisogno di sopravvivere, il bisogno di costruire un sapere del mondo che resista al calar delle tenebre, il bisogno di mantenere comunque rapporti umani, lo ha spinto a sposare la sapienza certa, relegando la sapienza vana nelle segrete del castello.

Ed il mondo si è scisso in un mondo della luce, in cui uomini civili costruiscono con la scienza le leggi della natura, con la filosofia le leggi del sapere, con la religione le leggi dello spirito, ed un mondo delle tenebre in cui selvaggi, travalicano le loro stesse leggi, abbandonandosi a sabba infernali con le ombre della notte.

La filosofia greca, poi, intesa come massima espressione del pensiero occidentale antico (1), nel tentativo estremo di esorcizzare le più radicate paure dell’uomo quali la scomparsa del sè materiale, la morte, o la perdita di quell’indefinibile qualità che lo fa diverso dagli animali (2), sancì la completa alienazione di quanto di irrazionale è caratteristica specifica dell’uomo stesso, stigmatizzando il bambino, la donna, il folle come realtà non umane od aberranti (3).

Ed il pensiero moderno, non avendo trovato l’ardire di andare oltre i concreti vantaggi materiali che tale eredità offriva, non è riuscito ad edificare il ponte che riunisse le parti separate: un sapere capace di comprendere ed esprimere anche il linguaggio dell’irrazionale.

Proseguendo la traccia dell’antico solco si è invece sviluppato come pensiero razionale, scientifico, capace di osservare, analizzare, descrivere, riprodurre o manipolare i fenomeni naturali, ma impotente a penetrare la realtà profonda dei comportamenti umani.

Eppure i più accorti degli uomini di scienza non resistono alla tentazione di andare oltre i confini del definito, di cercare comunque il ‘senso’ dell’uomo, e per questo spingono la loro indagine sin’oltre i confini della struttura e della funzione della sua parte più segreta: “la materia pensante” (4), il cervello.

Tentativo vano di muoversi nelle incerte regioni del sogno puntellandosi con stampelle materiali costruite sulla base di regole matematiche. Rigorosa ricerca scientifica che nasconde l’illogica speranza che attraverso il dominio dell’infinitamente piccolo si possa ‘magicamente’ scivolare nel non materiale.

Ma la realistica rassegnazione a questo impossibile ha portato i sapienti a dividersi in due gruppi tra i quali la comunicazione e l’interscambio sono diventati assai difficili.

Da una parte gli Umanisti, che elaborano teorie che si muovono nell’infido territorio del pensiero astratto della filosofia, della psicologia, delle religioni; dall’altra i Neuroscienziati che ci offrono utilissimi strumenti di conoscenza certa, accettando il limite di non poter spiegare in termini molecolari il contenuto dell’immagine di un sogno.

La mente agli Umanisti, il cervello agli Scienziati.

Ma negli ultimi trent’anni, forse proprio a causa della intrinseca impossibilità umana di accettare realmente questa divisione, l’interesse per lo studio delle facoltà mentali ha portato ad incestuosi connubi, talvolta fecondi, e quindi al crollo di antichi tabù.

Si sono abbattuti dogmi come quello relativo al concetto di fissità e determinismo genetico delle strutture cerebrali; si è sviluppata l’idea della plasticità neuronale che ha sostituito la nozione di “area cerebrale funzionale” con quella di “sistema neuronale” (5).

Si sono enormemente sviluppate le conoscenze relative ai meccanismi che presiedono la trasmissione delle informazioni tra neuroni con la specificazione dei concetti di molecole neurotrasmettitoriali e neuromodulatrici e con la identificazione di almeno cinquanta di esse (6).

Si è scoperta la stretta interrelazione tra il sistema nervoso ed il sistema endocrino e tra questi ed il sistema immunologico (7).

Si sono inoltre fatte numerose osservazioni sulle relazioni esistenti tra atteggiamento psichico e funzionamento organico (8) (9).

Si è quindi tentato di integrare le nuove acquisizioni scientifiche con le disponibili teorie psichiche, elaborando più o meno probabili teorie psicobiologiche.Base metodologica di questi tentativi è restato comunque il Metodo Galileiano.

 

 

 

Alla ricerca di un nuovo metodo

 

Agli inizi degli anni settanta, inserendosi in modo affatto singolare in questo fervore di ricerca, prendono corpo le intuizioni di Massimo Fagioli, che con la scoperta e la teorizzazione delle fondamentali situazioni umane che si realizzano alla nascita, propone una basilare rivoluzione di metodo nella ricerca psichica.

Quanti si erano occupati sino ad allora di realtà psichica, o non si erano affatto posti il problema di verificare se le loro argomentazioni, per caso, occupassero il territorio della metafisica oppure, nel tentativo di renderle oggettive ed universali, avevano compiuto l’errore di credere che per ottenere tale fine fosse sufficiente servirsi degli strumenti tipici della metodologia scientifica. (10)

Uno dei punti fondanti su cui   il metodo galileiano si basa, una volta definito ed isolato l’oggetto di interesse, è l’associazione ad esso od a sue parti di valori quantitativi, numerici, con i quali compiere operazioni induttive (11). Ciò è possibile definendo una unità di misura di riferimento stabile e da tutti riconosciuta, che renda validi, universali ed utilizzabili i numeri associati all’oggetto (12).

Lo scienziato quindi realizza un atteggiamento corretto quando riesce a descrivere un fenomeno in modo oggettivo, cioè compiere rilievi , in funzione delle unità di misura di riferimento, facendo attenzione a mantenersi all’esterno del sistema, senza venire da esso a propria volta influenzato.(13)             Ma, nonostante tali accorgimenti, persino la semplice misurazione dei fenomeni naturali resta operazione assai complessa in quanto l’operare stesso dello scienziato a tale fine interferisce, modificandolo, col fenomeno di cui si vorrebbre avere conoscenza oggettiva, tanto che, per la necessità di disporre di dati sempre più prossimi alla realtà, si è sentito il bisogno di elaborare una complessa teoria degli errori (14).

Dunque, attraverso il corretto impiego del metodo scientifico, della realtà non si può che avere una rappresentazione numerica approssimativa ma accettabile perché operativamente valida.

Se ciò è vero allorché uno scienziato si pone un problema grossolano di manipolazione di realtà materiale come, ad esempio, la misurazione della temperatura di un corpo, risulta intuitivo quanto le cose si complichino quando si intenda compiere operazioni scientifiche, cioè misurare, quantificare, un fenomeno così difficilmente definibile come un atteggiamento psichico, una emozione, una pulsione, realtà non materiali che, tra l’altro, hanno esistenza e senso solo nell’ambito del rapporto interumano.

Alla ricerca di una impossibile oggettività gli psicologi hanno elaborato una infinita serie di raffinatissimi test con i quali tentano di rendere ‘scientifico’ il loro operare, forse con la latente motivazione di contenere la propria angoscia di impotenza nel rapporto diretto col paziente in un confronto invidioso con il medico organico, apparentemente protetto da una nosografia certa e dalla apparente ‘scientificità’ dei numeri che può associare ai fenomeni fisiologici o patologici.

Ma il piatto tentativo di trasferire i principi della metodologia galileiana nel campo della ricerca psichica significa in realtà accettare la implicita castrazione di non poter che approssimativamente osservare, misurare, classificare incerte manifestazioni di una realtà che resta sconosciuta per definizione.

E allora, coerentemente, l’inconscio è inconoscibile, impenetrabile alla ragione, realtà eternamente separata galleggiante nel’iperuranio.

E allora, coerentemente, deve essere annullato quanto di umano non sia percepibile con i sensi materiali o razionalmente comprensibile.

E allora, coerentemente, non umano è il neonato che non parla ancora come gli uomini, la donna che non parla mai come gli uomini, il folle che non parla più come gli uomini.

Se però, come pure accennato da Freud (15) (16), lo strumento per la conoscenza dell’inconscio è nell’inconscio stesso, allora vuol dire che, nello specifico della ricerca psichica, si verifica il paradosso che il riferimento universale non può essere all’esterno del sistema, ma che, addirittura, è della stessa materia dell’oggetto   di interesse e può funzionare solo quando osservatore ed osservato entrano in rapporto diretto, cioè nel momento stesso in cui viene a cadere uno dei cardini dell’oggettività del metodo scientifico.

Basterebe questa osservazione per mettere in crisi tutte le elaborazioni di pensiero che hanno trattato la realtà psichica senza prima mettere a punto uno specifico metodo di indagine che tenesse conto della peculiarità del   rapporto degli esseri umani.

Oltre tremila anni sono stati spesi nell’illusione di avanzare le soglie della conoscenza, con il risultato di aver invece prodotto solo incontrollati ed incontrollabili progressi tecnologici.

 

Il metodo irrazionale

 

 

                                            Ebbene, come potrebbe essere qualche cosa ciò che non è mai allo stesso modo?….

Ma non potrebbe nemmeno essere conosciuto da nessuno. Nel momento stesso, infatti, in cui si avvicinasse per conoscerlo diverrebe altro e diverso, cosicchè non potrebbe essere più conosciuto quale è o come è. Certamente nessuna conoscenza coglie il suo oggetto se questo non sta assolutamente fermo…

Ma non è neppure ragionevole, Cratilo, parlare di conoscenza se tutti gli esseri mutano e nulla permane .

(Platone) (167)

 

 

Occorreva un guizzo di coraggio e di fantasia per liberarsi dal giogo imposto dalla riconosciuta saggezza del maestro Platone…

La concettualizzazione dell’inconscio per mezzo di un’immagine, l’immagine poetica di “inconscio mare calmo” (18), si propone come un vero e proprio salto epistemologico nella ricerca psichica: essa implica la sostituzione del metodo analitico proprio delle scienze positive con un nuovo metodo sintetico, in funzione del quale cogliere con immediatezza il senso di una situazione umana attraverso un’immagine rappresentata, modalità qualificante del rapporto inconscio tra esseri umani.

La certezza galileiana che il fenomeno complesso possa essere conosciuto come somma dei fenomeni semplici osservabili che lo compongono, viene abbandonata sulla base dell’intuizione irrazionale che il fenomeno psichico umano sia sempre intrinsecamente legato ad un movimento di immagini interne, e che come tale possa essere recepito globalmente.

Aver abbandonato l’obiettività razionale nella ricerca psichica significa aver concettualizzato l’impossibilità e l’insensatezza della pretesa di accostarsi ad un essere umano in modo neutro, scientifico, ed in buona sostanza non umano.

Significa aver posto alla base di qualsiasi ricerca umana il rapporto, con la consapevolezza che l’unica ed indispensabile oggettività possibile è riposta nella correttezza e coerenza assoluta di chi accede ad esso come ricercatore.

L’ ‘unità di misura’ del fenomeno psichico non può che essere la recettività sana dell’osservatore; quindi l’elemento di riferimento che consente di costruire un discorso scientifico in questo ambito non può che essere, coerentemente, la sanità psichica.

Diventa allora necessario e possibile concettualizzare un’idea di inconscio sano.

Conoscere la realtà profonda di un uomo non significa più attendere le sue comunicazioni verbali o elaborare tecniche che consentano di scavare nei suoi più antichi ricordi, magari sino al limite della coscienza e della memoria. Significa invece coglierne le immagini interne attraverso il rapporto diretto, così come la visione di un quadro è l’unico evento necessario e sufficiente per cogliere sinteticamente il senso della realtà storica ed affettiva dell’artista che lo ha dipinto, fidando solo sulla propria sensibilità e sulla correttezza del prorprio rapporto con la realtà.

Conoscere la realtà profonda di un uomo significa allora cogliere la sostanza delle sue immagini interne, non assistendo passivi alle sue rappresentazioni, ma entrando, con un atto di fantasia creativa, nel teatro dei suoi sogni, rispondendo col movimento delle proprie immagini alle battute del protagonista.

Lasciarsi andare al fluire delle immagini interne rappresentate è superare i limiti del razionale nel rapporto umano.

Solo così esso diviene dinamica di realtà inconsce ed è terapeuta colui che, nello specifico del rapporto di cura, verbalizza i movimenti del proprio inconscio sano in risposta alla comunicazione d’immagini interne di scarsa potenza espressiva o malate. La certezza dell’essere in rapporto permette di superare l’incertezza mascherata dal riferimento oggettivo esterno.

Risulta evidente che in questa dinamica non valgono i parametri logici o spazio-temporali: diventa allora possibile affrontare senza angoscia la realtà d’un tempo lineare umano, tale per essere caratterizzato da una nascita e da una morte, estremi tra i quali si esprime la creatività del rapporto in un rincorrersi ed intrecciarsi di immagini interne che libere si muovono lungo l’ascissa del tempo, alla ricerca della continuità evolutiva dell’inconscio.

Ed in questa conquistata dimensione di libertà neppure la memoria rappresenta un limite poichè il rapporto capace di percepire i contenuti affetivi può spingersi sino a cogliere la prima, più intima ed universale, immagine di “inconscio mare calmo”, in un processo di conoscenza che ha la dimensione del sogno e la certezza dell’esperienza vissuta.

Con tale metodo è stato dunque possibile teorizzare, attraverso una ricerca della ‘fisiologia dell’inconscio’, il concetto di inconscio sano e le dinamiche attraverso cui la perversione, la scissione, smettono di essere caratteristiche intrinseche della realtà psichica umana ma si realizzano come possibili accidenti, malattie.

Ma, in una concezione di non scissione tra realtà somatica e realtà psichica, anche l’inconoscio deve essere in qualche specifico modo collegato alla realtà biologica che lo sottende.

E per lo studio di questo aspetto della realtà può e deve restare valido il metodo galileiano: il metodo razionale ed il metodo irrazionale sono strumenti diversi che si integrano nella lettura di due diverse espressioni della stessa realtà che è l’uomo.

 

 

La fase prenatale

 

In una visione finalmente unitaria la realtà umana va considerata come un continuum evolutivo in cui eventi fondamentali come nascita, allattamento, svezzamento, visione dell’essere umano diverso, rapporto con l’essere umano diverso non debbono essere intesi come astratte trasformazioni qualitative ( il bambino ‘animale’ (19)che, attraverso un rituale iniziatico, diventa ‘uomo’), ma come crisi, vale a dire come un succedersi di situazioni evolutive che rendono evidenti nuovi aspetti della realtà non presenti nelle situazioni precedenti ma con esse strettamente correlate. Per crisi in questo senso deve essere intesa quella circostanza in cui una organizzazione precedentemente valida risulta repentinamente inadeguata a determinati livelli di cambiamento delle situazioni ambientali.

Essa presenta quindi due valenze: una distruttiva, poiché in mancanza dell’emergere di nuove capacità si pone come causa della degenerazione e morte del sistema; una creativa, in quanto stimolo indispensabile perché nuove forme, preesistenti solo come potenzialità, possano esprimersi, a partire da condizioni materiali in cui un sistema sia in equilibrio dinamico, consentendo non solo la sopravvivenza ma anche l’evoluzione del sistema.

Seguendo questa impostazione, particolare interesse assume la ricerca e la conoscenza di quanto precede la nascita, poiché logica vuole che proprio nella fase endouterina debbano andare costituendosi quelle condizioni di realtà materiale che la crisi della nascita evidenzierà specificamente come realtà psichica (20).

Osservando quanto avviene nelle prime fasi dello sviluppo embrionale, nulla di specifico consente di distinguere l’uomo da qualsiasi altro essere vivente: le prime divisioni cellulari si susseguono secondo rigidi schemi preordinati geneticamente, per costruire organi ed apparati caratteristici della specie.

Qualcosa di peculiare avviene intorno alla fine del quinto mese, allorché il sistema nervoso comincia a svilupparsi seguendo un nuovo impetuoso impulso, che, con tale modalità, compare solo nella specie umana.            I neuroni cominciano a moltiplicarsi al ritmo di duecentocinquantamila al minuto, raggiungendo entro il sesto mese il loro numero definitivo di circa cento miliardi (21).

Dopo il sesto mese assistiamo ad un altro scatto di crescita: stabilizzatosi il numero di neuroni, il peso del cervello aumenta di circa due grammi al giorno a causa dell’aumento numerico delle cellule gliali, della crescita e della mielinizzazione dei prolungamenti neuronali (22).

Ne deriva un cervello in cui evolutivamente si è determinato un enorme sviluppo della corteccia frontale ed occipitale, dotato di possibilità di funzionamento praticamente infinite a causa non tanto della molteplicità   dei neuroni quanto dell’enorme numero di correlazioni sinaptiche che essi sono in grado di stabilire. Ogni neurone è in grado di effettuare oltre diecimila contatti sinaptici: alla nascita sono quindi attive oltre un milione di miliardi di sinapsi.

Questo dato porta alla immediata deduzione che la specificità delle correlazione sinaptiche, e quindi le specifiche caratteristiche dei comportamenti umani, non possono essere esclusivamente determinate dal patrimonio genetico, in quanto le informazioni necessarie non troverebbero spazio materiale nel relativamente modesto numero di geni disponibile.

Le possibilità offerte dalle attuali tecnologie (Endoscopia, Ecografia, Ecocinematografia, Elettroencefalografia fetali) di studiare i comportamenti fetali correlati al livello di maturazione e di attività del sistema nervoso hanno permesso di modificare vecchie ipotesi e di formularne nuove.

Ormai si sa che sin dalla ottava settimana l’embrione è in grado di rispondere con contrazioni muscolari ad opportuni stimoli; a dodici settimane è in grado di muovere gli arti anche in assenza di stimoli esterni, a quattordici settimane comincia a compiere movimenti che lasciano intravedere una finalità (allontanamento dallo stimolo); a ventidue settimane sembra cominciare ad esprimersi il riflesso di suzione (23).

L’insieme di queste osservazioni ci induce a formulare alcune considerazioni:

 

Il feto è ‘sistema biologico complesso in equilibrio dinamico’.

Il feto durante il suo primo sviluppo endouterino esprime unicamente qualità e capacità tipiche della materia vivente quali l’irritabilità, la tendenza all’aggregazione cellulare, la specializzazione cellulare, l’interrelazione tra sistemi cellulari, il mantenimento di rapporti energetici costanti, differenziandosi da altre forme vitali solo per la complessità della sua organizzazione.

Pertanto può concettualmente essere considerato come un ‘sistema biologico complesso in equilibrio dinamico’: una realtà biologica, cioè, che risponde a precise leggi chimico- fisiche e che trova la ragione dei suoi processi evolutivi nell’aggiustamento dei rapporti energetici interni.

Tale sistema è caratterizzato dalla capacità di mantenere autonomamente determinate sue caratteristiche: quando tutti i processi sono in equilibrio, realizza una condizione stabile, detta ‘omeostatica’ (Nota 1); allorchè un quanto di energia proveniente da uno stimolo esterno modifica questa condizione il sistema passa in una condizione instabile detta ‘eterostatica’.

Questa modificazione induce una risposta riequilibratrice, tendente a riportare il sistema nella precedente condizione omeostatica, stabile, che nell’organismo umano (anche fetale) si realizza attraverso la messa in atto di meccanismi metabolici di controregolazione. Per rendere più chiaro questo concetto possiamo pensare all’equilibrio dei piatti d’una bilancia: se per un intervento esterno aumenta il peso posto su un piatto, per riottenere l’equilibrio è necessario aumentare corrispondentemente il peso posto sull’altro; è così ripristinata la condizione di equilibrio precedente pur essendo mutato il peso complessivo del sistema.

Nei sistemi biologici si realizzano dunque modificazioni tali che la quantità energetica degli elementi in equilibrio può essere proporzionalmente cambiata, restando però immutata la costante di equilibrio; in particolare dobbiamo notare che in seguito a eventi destabilizzanti, la quantità totale dell’energia del sistema (e quindi le sue potenzialità) è aumentata pur essendo stata ripristinata la condizione di omeostasi.

Il ripetersi della dinamica: stimolo-risposta controregolatrice, rappresenta l’evento capace, sin dalla fase endouterina, di determinare, a partire dalle strutture geneticamente determinate, il così detto adattamento epigenetico, cioè una serie di trasformazioni funzionali od anatomiche non previste nel codice genetico ma necessarie per consentire all’organismo di sopportare stimoli di sempre maggiore intensità, devianti la condizione omeostatica, senza subire danni. Tale meccanismo consente all’organismo umano di realizzare un adattamento all’ambiente talmente puntuale e vasto da non poter essere contenuto in nessun programma genico (24).

E’ ovvio che lo stimolo, per essere utilizzato in maniera evolutiva dal sistema, non deve essere di intensità superiore alle sue capacità di risposta.

 

ll liquido amniotico costituisce l’ambiente perfettamente funzionale all’espresione delle potenzialità di accrescimento fetale.

 Se il feto è precocemente in grado di rispondere agli stimoli significa che il liquido amniotico costituisce una barriera del tutto particolare. E’ infatti capace di isolarlo dal mondo esterno ma è contemporaneamente in grado di assicurare l’esistenza di stimolazioni sensoriali, contenute in un range energetico e qualitativo estremamente ristretto e completamente adeguato alle capacità fetali, indispensabili al corretto sviluppo del sistema nervoso.

Il liquido amniotico, durante il corso della gravidanza, non resta costantemente uguale a sè stesso, ma continue, sia pur minime, variazioni delle sue caratteristiche chimico-fisiche realizzano quelle condizioni di finissimo disquilibrio energetico atte a determinare specifiche, delicate,   stimolazioni dei recettori fetali.

Sappiamo infatti che variazioni di densità, peso specifico, osmolarità, concentrazione   dell’azoto non proteico (verosimilmente di origine urinaria) possono essere causa di stimoli chimici.

Ulteriore fonte di stimoli può essere la notevole variazione della quantità del liquido che passa dai trenta millilitri iniziali ai circa mille al termine della gravidanza, per mezzo anche dell’intervento attivo del feto nei confronti del liquido amniotico che viene assorbito attraverso cute e mucose, che in parte viene deglutito, trasformato e restituito attraverso l’emuntorio renale e le secrezioni bronchiali.(25) (26).

Il movimento continuo di falde liquide sulla cute determina sia l’attivazione degli specifici recettori sia il movimento della sottile peluria fetale con la conseguente attivazione dei recettori sensoriali posti alla base dei bulbi piliferi.

Recenti esperimenti dimostrano la possibilità di fornire stimoli olfattori somministrando sostanze che alterano elettivamente la composizione chimica del liquido amniotico (27).

Stimolazioni pressorie derivano dalla variazione delle posizioni della madre, dall’attività dei suoi organi interni, dalle contrazioni dei muscoli addominali.

Suoni (essendo i liquidi conduttori) giungono a sollecitare gli organi uditivi, così come è dimostrato da eleganti esperimenti (28).

Gli stimoli luminosi invece non possono determinare alcuna reattività, sia perchè normalmente non superano la barriera uterina, sia perché le strutture nervose fetali sono anatomicamente e funzionalmente inidonee a compiere la loro funzione; l’attività elettrica rilevabile all’interno del sistema visivo fetale dipende esclusivamente da attività spontanea (29).

E’ da sottolineare ulteriormente che la funzione del liquido amniotico è quella di garantire le condizioni necessarie allo sviluppo del feto. Quindi le sue caratteristiche materiali sono tali da consentire l’espressione di quanto geneticamente determinato fornendo anche quegli stimoli necessari ad attivare le funzioni neurologiche poste alla base della capacità fetale di stabilire un rapporto con l’oggetto.

 

L’esistenza di giunzioni sinaptiche funzionanti indica l’esistenza di continui flussi elettrici che le attraversino.

L’esistenza di numerosissime giunzioni sinaptiche implica il fatto che debbano essere costantemente attivate, poiché sappiamo che esse mantengono la loro integrità anatomica solo se costantemente sollecitate da stimoli di adeguata intensità e frequenza e che, in mancanza, degenerano e scompaiono rapidamente (30).

Questa realtà funzionale ci spinge a considerare che esistano stimoli provenienti dall’esterno con i quali necessariamente il feto prenda rapporto.        Dobbiamo inoltre considerare che alla continua attivazione delle giunzioni interneuronali provvede   anche l’importante attività periodica di segnapassi automatici interni che, nelle prime fasi di sviluppo, sono localizzati nel midollo spinale, manifestandosi atraverso l’invio di cicli di impulsi al ritmo di 0,5-2 cicli/minuto necessari per il mantenimento di giunzioni interneuroniche e neuromuscolari preposte all’espletamento di attività automatiche come i riflessi o la funzione dei muscoli respiratori (31).

Successivamente il segnapassi principale si trasferisce nella sostanza reticolare cerebrale, verosimilmente in correlazione all’insorgere delle attività tipo REM.

La sua attività determina il passaggio di stimoli che si diffondono a tutto il sistema neuromuscolare e che si manifestano attraverso attività fetali sempre più complesse, contribuendo alla iniziale formazione dello schema corporeo.

 

La struttura anatomo funzionale del sistema nervoso è determinata dalle istruzioni genetiche e da stimoli specifici.

L’insieme delle stimolazioni interne ed esterne agisce sulla moltitudine delle interconnessioni neuronali selezionando alcuni percorsi che l’impulso nervoso segue preferenzialmente.

Per immaginare come avviene la selezione dei percorsi nervosi possiamo pensare ad un treno che, giunto per la prima volta in una nuova stazione sconosciuta, per arrivare al binario di destinazione, imbocchi a caso i vari scambi che gli si presentino davanti durante la sua corsa.

La possibilità e la modalità del successo quindi sarà del tutto occasionale.

Tuttavia l’arrivo di un elevato numero di treni renderà certamente possibile che uno di essi arrivi a destinazione, e per la via più diretta; a questo punto tutti gli altri percorsi risulteranno obsoleti. La via diretta sarà poi consolidata dall’uso mentre i binari collaterali, non più percorsi, verranno abbandonati e magari smantellati.

E’ così che il sistema nervoso si ristruttura costantemente, a partire dalla struttura di base geneticamente determinata, sotto l’influsso dell’ambiente, dal momento che il passaggio di impulsi successivi, attraverso meccanismi sinaptici facilitatori o inibitori che agiscono come porte che si aprono o si chiudono, rende materialmente percorribile una via neuronale.

Inoltre impulsi di caratteristiche particolari sono in grado di modificare anatomicamente la struttura delle giunzioni interneurali e neuromuscolari sinaptiche costruendone di nuove.

Attraverso tali meccanismi vanno realizzandosi funzionalmente ed anatomicamente sistemi di reti neuronali.

E’ questa la base anatomo fisiologica dell’apprendimento (32) (33) che inizia con modalità particolari nella vita fetale, per la strutturazione di grossolani sistemi neuronali elementari, e che nell’uomo non finirà più per tutta la durata della vita (34).

Ciò significa che da una parte possono essere attivati circuiti che consentono comportamenti istintivi, organizzati durante lo sviluppo secondo programmi genetici e che dall’altra si attivano, sin dalla fase endouterina, alcuni circuiti non programmati, risultato casuale dell’interazione con l’ambiente esterno.

Nella sua evoluzione il cervello umano sembra liberarsi sempre più dal determinismo genetico sino a poter considerare la sua struttura definitiva fondamentalmente come risultato della plasticità neuronale, da cui dipende la formazione di sistemi neuronali, piuttosto che della rigida strutturazione anatomica di aree funzionali (35).

Il risultato di questi eventi è che alla nascita il bambino si troverà con un sistema nevoso fornito di sovrabbondanti potenzialità costituite dagli innumerevoli collegamenti e interrelazioni neuronali, con alcuni circuiti geneticamente predeterminati ed altri determinati dal rapporto col liquido amniotico.

Lo studio della distribuzione energetica cerebrale studiata per mezzo della Tomografia ad emissione di positroni ha dimostrato che il cervello raggiunge il massimo di attività tra i 4 e i 10 anni in relazione alla attivazione ed al conseguente rimaneggiameto delle strutture sinaptiche relativi ai processi di apprendimento (36).

 

Il feto, in funzione delle sue caratteristiche genetiche e delle stimolazioni esterne elabora complesse attività neuro-muscolari.

I primi movimenti embrionali sono pura espressione delle caratteristiche, intrinseche, facoltà delle cellule nervose e muscolari: eccitabilità, trasmissione dell’eccitazione, contrattilità.

In tale fase non esiste alcuna elaborazione dello stimolo.

L’energia assorbita dal recettore sotto forma di stimolazione specifica, viene condotta verso il centro dal neurone sensoriale e immediatamente restituita, attraverso il neurone motorio, nella risposta contrattile, come espressione del semplice riflesso diastaltico. I movimenti registrati alla fine della gravidanza, invece, già presuppongono un importante lavoro di elaborazione ed integrazione delle afferenze.

L’alterazione di stato dei recettori periferici viene condotta dalle fibre neuronali afferenti sino alla corteccia sotto forma di potenziale elettrico.

I neuroni di coniugazione trasmettono l’impulso a numerosi sistemi neuronali, trasformando l’impulso elettrico in informazione. Il trattamento dell’informazione attraverso il confronto con dati già elaborati ed acquisiti consente poi risposte motorie complesse.

Il feto a termine mostra quindi di possedere taluni grossolani apprendimenti, che tuttavia nulla hanno a che vedere con l’imparare di cui abbiamo comune esperienza, essendo essi pura espressione di funzioni biologiche, immediata risposta alle stimolazioni ambientali (37).

“Il feto nell’utero è materialità in rapporto con la materialità dell’ambiente” (38).

 

L’interazione del sistema nervoso fetale con l’ambiente endouterino determina una particolare qualità di sensazioni e percezioni.

Dalla constatazione degli eventi neurologici descritti dobbiamo dedurre che il feto stabilisce coll’ambiente liquido amniotico un rapporto del tutto peculiare in cui si evidenziano sue specifiche caratteristiche: ha recettività nei confronti della realtà esterna essendo dotato di sistemi recettoriali sufficientemente funzionanti, vie nervose in grado di condurre stimoli che si generano sia nell’ambiente esterno che interno, centri sottocorticali in grado di elaborarli, strutture nervose corticali in grado di integrarli.

E’ quindi certamente in grado di interagire attivamente con l’ambiente esterno e di trarre da questo rapporto modificazioni interne specifiche e caratteristiche che potremmo definire ‘sensazioni materiali’.

Ma la rilevazione di attività fetali complesse come la capacità di compiere movimenti coordinati e finalizzati all’allontanmento dallo stimolo, ci induce a ritenere che la sensazione prodotta dallo stimolo debba essere sottoposta ad un elevato livello di integrazione.

Dobbiamo quindi ritenere che l’elaborazione delle sensazioni materiali porti il feto a stabilire coll’ambiente esterno una complessa dinamica di rapporto che si basa su un fenomeno neurologico che potremmo definire ‘percezione materiale’. (Nota 2)

Tale processo tuttavia nulla ha a che vedere con ciò che normalmente viene inteso come conoscenza: si tratta infatti di fenomeni puramente biologici determinati dall’esistenza di una variazione di energia nell’ambiente raccolta sotto forma di stimolo da particolari recettori che attivano le funzioni, sia pure complesse, di una struttura biologica che esprime la sua specifica funzione.

Lo studio dell’anatomia e della fisiologia ci consente dunque di affermare con sufficiente sicurezza che il feto è in grado di ‘percepire’ le caratteristiche dell’ambiente esterno e che questo, a sua volta, è capace di produrre una traccia anatomo-funzionale nelle strutture nervose fetali.

 

I fenomeni neurologici fetali vanno interpretati come eventi biologici governati dalla necessità di mantenere un costante equilibrio energetico.

Possiamo inoltre dedurre che il sistema in equilibrio dinamico fetale, essendo in grado di esprimere nel rapporto con il liquido amniotico, mediato dal suo sistema nervoso, recettività, tendenza a recuperare la condizione omeostatica, capacità di creare adattamenti anatomo-funzionali, debba essere dotato di una energia chimico-fisica in grado di presiedere a tali eventi.

Si deve trattare dunque di una forma di energia che si esplica tutta all’interno del sistema, poichè, per il mantenimento della situazione omeostatica non esiste alcuna necessità di intervenire sull’ambiente esterno, le cui caratteristiche sono assolutamente commisurate ai bisogni del feto.

Sembra quindi lecito identificare questa energia del feto con la “carica libidica originaria”, legata alla sua vitalità, in funzione della quale è in grado di stabilire un particolare     rapporto attivo con l’ambiente uterino (39) di cui conserva una ‘traccia anatomo-funzionale’ materializzata nella struttura delle reti neuronali. (40)

Possiamo inoltre intuire che tale energia è in costante accrescimento in quanto, sollecitata da continue stimolazioni interne ed esterne, per poter ristabilire sempre la condizione omeostatica, deve equilibrare elementi contrastanti di livello sempre più elevato.

 

La nascita        

Ma la condizione ideale di equilibrio perfetto, in cui le esigenze interne del feto sono completamente rispettate da una realtà materiale esterna in cui sembra quasi di poter intuire una sorta di intenzionalità volta a tale scopo, non è eterna e presto l’esigenza assoluta di crescita sarà incompatibile con la relatà intrauterina.

L’incongruenza materno fetale, l’alterarsi del delicato equilibrio tra gli ormoni prodotti dal feto e quelli prodotti dalla madre, costituiscono probabilmente l’elemento, ancora una volta puramente materiale, capace di innescare i meccanismi funzionali che controllano il proceso della nascita.

La prima grande crisi.

E’ il distacco dalla situazione protetta in cui la lontana eco del mondo giungeva filtrata dal corpo della madre, in cui la realtà materiale assumeva quasi caratteristiche umane in una continua, tiepida carezza, in cui tutto era finalizzato unicamente a favorire il massimo sviluppo delle potenzialità del feto.

La prima grande separazione.

Ed è crisi perché l’improvviso incontro con la crudezza della realtà materiale rende immediatamente evidente l’inadeguatezza delle capacità del neonato a mantenere autonomamente la indispensabile costanza dei processi interni.

Il ‘sistema biologico complesso in equilibrio dinamico’ non è più in grado di ristabilire le condizioni omeostatiche interne attraverso controregolazioni metaboliche in seguito allo stimolo eccessivamente perturbante della realtà materiale.

Quella energia che era stata sino ad allora capace di ripristrinare la condizione di equilibrio si trasforma e resta come tendenza del sistema a tornare alla situazione precedente di equilibrio.

Da questo momento potremmo definire istinto questa energia, questa capacità, in quanto espressione immediata di una qualità intrinseca della materia vivente (41), “tendenza di ordine fisico oltre che biologico” (42).

Gli animali invece sembrano giungere al grande appuntamento della nascita in modo più valido rispetto agli esseri umani: essi infatti, durante la fase di sviluppo prenatale, maturano complessi meccanismi neuro-motori istintivi, geneticamente predeterminati, caratteristici di ogni specie, che mettono in grado il cucciolo, sin dai primi istanti di vita, di interagire validamente con gli stimoli proventienti dall’ambiente naturale, esprimendo complesse capacità morfo-funzionali. Al contrario dell’uomo l’animale è immediatamente in grado di spendere all’esterno una quata di energia. (43)

In realtà questo elemento di apparente vantaggio cela un limite insuperabile: le possibilità completamente espresse sulla base dell’informazione genetica possono funzionare esclusivalmente nell’ambito della ristretta nicchia biologica nella quale l’animale è predeterminato a vivere; hanno cioè solo un modesto margine di indeterminazione, di incompletezza, che consenta all’animale di modellare sue strutture fondamentali in funzione della realtà esterna solo in modo limitato ed in circostanze specifiche (44).

L’eventuale adattamento di specie animali a mutamenti delle condizioni ambientali non è legato all’apprendimento che renda possibile l’elaborazione di strumenti adatti alla conservazione delle proprie caratteristiche genetiche ma alla comparsa di mutazioni: per sopravvivere l’animale deve perdere la propria identità genetica. L’adattamento delle specie animali dipende esclusivamente dall’evoluzione e non da capacità di intervenire sull’ambiente.

Nell’uomo la realtà materiale alla nascita, invece di rappresentare lo stimolo efficiente a metter in funzione organi e strutture adeguatamente predisposti, si rivela come un bombardamento di stimoli fuori scala.

La nascita, quindi, per l’essere umano, si propone come radicale mutamento di realtà: per la prima volta gli stimoli esterni non ‘tengono conto’ delle possibilità e dei suoi bisogni, sono carichi di un elevato potenziale disgregatore, sono “eccessivamente inanimati” (45); per la prima volta l’energia, che si era sempre mossa tutta all’interno della realtà fetale per mantenere gli equilibri biologici e costruire forme sempre più complesse ed adeguate alla vita, deve essere rivolta all’esterno per resistere ed eventualmente modificare la realtà materiale divenuta minacciosa ed aggressiva; ma la forza degli stimoli esterni è talmente elevata da non permettere alcuna atività difensiva.

Ed in particolare tra gli stimoli esterni quello capace di mandare completamente in crisi il sistema è rappresentato dalla luce.

Stimolo assolutamente nuovo, attraverso i recettori retinici, mai prima specificamente attivati poiché protetti dal buio intrauterino, invia alla corteccia occipitale impulsi che, non trovando neppure elementari circuiti neuronali funzionanti ed attivati, possono determinare una sorta di cortocircuito (46) (47) (48).

Un improvviso ed indistinto bagliore che investe contemporaneamente tutte le strutture sensoriali è l’imperativo categorico che costringe il neonato a chiudere gli occhi.

Questa è l’espressione simbolica del primo tentativo di intervento sulla realtà esterna: non potendo in realtà ‘spegnere la luce’ il neonato ‘fà il buio’ impedendo agli stimoli luminosi di giungere all’interno; non potendo materialmente modificare la violenza dei suoni o la temperatura dell’aria trasforma la cute dal luogo del contatto perfetto con l’esterno ‘buono’, al luogo dei punti equidistanti da un centro da proteggere, sfera d’acciaio impenetrabile all’esterno ‘cattivo’, “scudo stellare” (49).

Un attimo di isolamento, di sospensione, come quello che dopo il fulmine precede il tuono: o soccombe come il più inetto degli animali, o resiste e crea il vallo che lo affranca definitivamente da qualsiasi confusione di specie.

Si può obiettare che anche per gli animali la luce rappresenta uno stimolo assolutamente nuovo, ma è verosimile che il suo effetto non sia così dirompente come nell’uomo poichè lo sviluppo della corteccia occipitale e la conseguente importanza che assume la rappresentazione visiva dell’esistente, è caratteristica specificamente umana (50).

Quindi per essi la nascita non rappresenta una vera e propria soluzione di continuità; la qualità del rapporto con la realtà non subisce radicali cambiamenti nel passaggio dalla situazione pre a quella post-natale.      La realtà materiale esterna, così come poi sarà per il resto della vita, viene vissuta come fonte di stimoli necessari e sufficienti ad innescare risposte comportamentali geneticamente preordinate per ogni specie e solo in piccola parte modificabili dall’apprendimento che però è limitato a particolari periodi della vita e ad aspetti marginali degli schemi vitali (51).

Il sistema omeostatico animale è quindi in grado di innescare meccanismi metabolici di controregolazione, e quindi risposte comportamentali, anche rispetto agli stimoli provenienti dalla realtà della nascita, ad esempio trasformando immediatamente l’incremento energetico derivante dalle stimolazioni sensoriali, in risposta motoria attraverso sistemi neuro-muscolari già completamente strutturati.

 

 La funzione del sistema neurovegetativo alla nascita.

Negli esseri viventi le risposte di controregolazione sono fondamentalmente mediate dal livello e dalla modalità di attivazione del sistema neurovegetativo: lo stato funzionale di organi ed apparati è infatti sotto il controllo del sistema simpatico e del sistema parasimpatico.

Tali sistemi hanno per lo più azione antitetica: l’uno eccitatoria, l’altro inibitoria, l’uno atto a produrre e liberare energia, l’altro a conservarla e provvedere ai bisogni di ripristino funzionale, l’uno prevalente nello stato di veglia, l’altro nelle fasi di sonno.

Sono anche stati sinteticamente definiti “sistema ergotropo” (simpatico) essendo delegato a mettere a disposizione dell’organismo i mezzi necessari a produre lavoro all’esterno e “sistema trofotropo” (parasimpatico) essendo delegato ad operare sulle varie funzioni in modo tale da immagazzinare all’interno energia (52).

Durante la vita intrauterina il mantenimento dell’equilibrio omeostatico è conseguente a piccolissimi spostamenti in favore dell’uno o dell’altro sistema in conseguenza della lieve intensità degli stimoli esistenti.

Ma alla nascita, come abbiamo visto, la situazione cambia radicalmente per il mutare della qualità dell’ambiente esterno, ed il sistema simpatico, che possiamo considerare come una sorta di sentinella pronta ad allertare i mezzi difensivi, viene massicciamente attivato, tanto da prevalere in modo assoluto.

Tutti i recettori periferici inviano al centro valanghe di informazioni sulla situazione esterna che risulta essere completamente diversa da quella attesa, condizione questa che trasforma l’informazione in stimolo stressante. (Nota 3)

Il tentativo di ristabilire l’equilibrio preesistente viene effettuato attraverso la attivazione massiva dei sistemi di allarme, che, con l’entrata in funzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e del sistema simpatico-midollare surrrenale, provvedono a liberare sostanze ormonali capaci di indurre atteggiamenti funzionali di organi ed apparati tali da poter far fronte alla spinta disorganizzatrice proveniente dall’esterno.

La produzione di ormoni e neurotrasmettitori è regolata da fini controlli a ritroso, che consentono che la loro qualità e quantità sia sempre correlata alla qualità ed intensità dello stimolo.

Ma, poichè il livello di squilibrio prodotto dall’ambiente è particolarmente elevato, i meccanismi di controregolazione di cui può disporre il neonato risultano improvvisamente non più adeguati allo scopo.

Allora l’energia di cui il neonato dispone per mantenere i suoi equilibri non può più restare confinata all’interno ma deve continuare ad orientarsi verso l’esterno nel tentativo di impedire che la violenza dell’ambiente abbia la meglio.

E’ l’inizio della vita, quella strana organizzazione della realtà che richiede per il suo mantenimento una continua, enorme, spesa energetica.

Nell’adulto, quando gli stimoli sono particolarmente violenti, viene attivato il sistema di allarme, la cui finalità è l’espressione di comportamenti di fuga o di aggressione, cioè situazioni caratterizzate da un dispendio energetico verso l’esterno.

Se però il comportamento conseguente alla eccitazione del sistema di allarme è impedito o è materialmente impossibile, oppure ancora quando lo stimolo è eccessivamente intenso ed acuto , l’organismo non è più in grado di mantenere la produzione di ormoni proporzionale al livello dello stimolo.

Si realizza allora la condizione definita sindrome da stress acuto “caratterizzata dall’esaurimento delle risposte comportamentali e dall’appiattimento della reattività emotiva”. (53) E’ come se la realtà esterna non esistesse più e, conseguentemente, non esistesse più un sè capace di sentire, un sè reattivo.

 

La nascita come oggettiva causa di stress

Mi sembra possibile, allora, riferire questi concetti alla situazione della nascita. (Nota 4)

Ritengo che verosimilmente gli stimoli della nascita possano essere considerati stressanti poiché durante tale evento si realizzano tutte le condizioni necessarie e sufficienti a determinare una reazione di stress cioè: 1) inibizione della risposta comportamentale; 2) livello di stimolazione inadeguato alle capacità di risposta; 3) discrepanza tra le condizioni attese e quelle attuali (54).

Infatti la condizione anatomo fisiologica del feto è tale da non consentire alcuna risposta comportamentale agli stimoli ‘aggressivi’ dell’ambiente; questi ultimi sono evidentemente troppo elevati rispetto alle capacità di risposta del neonato; inoltre lo stimolo luminoso risulta essere totalmente nuovo ed inatteso e certamente non trova alcuna struttura precedentemente abilitata a decodificarlo ed utilizzarlo per elaborare strategie difensive.

 

Il meccanismo biologico alla base dell’istinto di morte-fantasia di annullamento

Alla nascita dunque il feto si trova nella condizione di non poter utilizzare gli usuali meccanismi di controregolazione per riequilibrare i livelli energetici interni, nè tantomeno può controllare gli squilibri agendo attivamente sull’esterno; per la prima volta è costretto a sperimentare gli effetti di una stimolazione a cui non è possibile dare una risposta materiale immediata.

Si realizza quindi una sorta di momentanea sospensione del rapporto con la realtà. E in questo attimo di distacco, di assoluta, paradossale, libertà, diventa reale solo ciò che avviene all’interno, nel profondo della realtà umana.

Dopo il primo accecante bagliore di luce, la realtà materiale del corpo, che si comporta come se non esistessero più stimoli e reazioni, rende reale, esistente, non la materia ma una sua funzione, un suo contenuto: la traccia del rapporto materiale col liquido amniotico precedentemente vissuto. Ma fare esistente una realtà non più attuale significa esprimere una capacità nuova, di cui, nell’osservazione dello sviluppo fetale, non abbiamo scorto traccia: la fantasia.

Conseguenza di tale realizzazione è la trasformazione del ‘sistema biologico in equilibrio dinamico’ in essere umano, capace non solo di trovare nuove costanti di equilibrio metabolico, ma anche di ‘inventare’ nuove impalpabili, immateriali, condizioni di armonia, vagheggiando un ritorno allo stato precedente, ‘ricordato’ come situazione vissuta di benessere imperturbato.

Dunque, una obbligata condizione di inazione, corrispondente all’esaurimento delle capacità biologiche di risposta del sistema di allarme rappresenta l’elemento materiale che viene vissuto come annullamento della realtà, realizzazione mentale dell’istinto di morte.

 

Realizzazione dell’immagine interna di inconscio mare calmo

All’esaurimento dell’attività simpatica a causa dello stress della nascita consegue la prevalenza del tono parasimpatico: l’attività cardiaca diviene meno concitata; i muscoli cedono sangue agli organi interni, la quantità di zucchero nel sangue diminuise, l’organismo intero si dispone al recupero delle energie dissipate, all’accrescimento delle proprie strutture e capacità.

In questa condizione, dunque, le afferenze sensoriali provenienti dall’esterno sono praticamente bloccate; i moduli corticali non ricevono informazioni e questa situazione viene regolarmente processata: la percezione conseguente possiamo immaginare che corrisponda a una eloborazione di ‘nulla’, di sè non percepente, di buio esterno come processo attivo di elaborazione ‘negativa’ della realtà e, certamente, non come ricordo del buio intrauterino; “…crea intorno a sè il buio della situazione precedente” .(55)

Tuttavia questo processo mentale, non essendo percezione di realtà materiale, di un nulla, di un buio effettivamente esistente all’esterno, deve essere realizzazione di una capacità mentale; è una realizzazione interna umana che sembra avere alcune analogie con quanto avviene durante i sogni.

Anche durante il sonno infatti viene momentaneamente annullata la realtà esterna e la possibilità di rispondere ad essa con attività comportamentali .(56) (57)

In questa condizione, in qualche modo simile al momento di sospensione del rapporto coll’ambiente successivo alla nascita, diviene vero ed esistente per il soggetto sognante ciò che in qualche particolare modo emerge e viene elaborato nelle strutture nervose centrali, principalmente con le caratteristiche di immagine visiva.

E’ verosimile allora che, in conseguenza della realizzazione fantastica dell’annullamento della realtà esterna e dell’istinto a tornare nella condizione precedente, sotto il dominiodel sistema parasimpatico, possa riemergere un contenuto interno, la ‘traccia anatomo-funzionale’ che la dimensione attiva di rapporto del feto con la realtà intrauterina aveva disegnato nelle reti neuronali, attraverso l’elaborazione di ‘percezioni materiali’.

La traccia anatomo-funzionale, alla nascita, attraverso un salto evolutivo che realizza una particolare attività mentale, si trasforma in traccia mnesica di una realtà di rapporto libidico precedentemente vissuto.

Tale emergenza non può essere immaginata come una pura e semplice riattualizzazione di dati di realtà, ma, essendo una operazione in cui l’essere umano, spinto dalla tendenza a ripristinare la condizione di equilibrio precedente, fa esistente ciò che non è, deve essere considerata come una attività creativa: la composizione dell’immagine interna più profonda e più individuale di ogni essere umano, espressione delle sue specifiche possibilità libidiche, radice comune dell’attività di pensiero, della fantasia, dell’inconscio.

La realizzazione di un particolarissimo ‘contenuto interno’ che potremmo pensare, per analogia con l’attività onirica, come una particolare immagine interna priva di figura.

Una immagine-ricordo di una realtà non ‘vista’ ma vissuta, percepita attraverso un rapporto di pelle e mai turbata da eventi intollerabili.

“Inconscio mare calmo”.

Dunque, un combinarsi di fatti materiali, una ricerca di un particolare equilibrio energetico di un sistema biologico vivente dà luogo ad un evento non materiale, una realizzazione di fantasia creativa.

E’ questa la pietra miliare dell’evoluzione, l’evento che traccia il vallo tra il più evoluto degli animali ed il più incompiuto degli uomini.

L’immagine nata dalla momentanea sospensione del rapporto diretto con la realtà materiale rappresenta il segno della mutazione che ha definitivamente separato l’uomo dall’animale.

Colui che può fermarsi un attimo, magari perché paralizzato dall’esaurirsi delle catecolamine necessarie per fuggire di fronte al leone, potrà poi ‘conoscere’, come in un sogno, la realtà animale.

Colui che può fermarsi di fronte al fuoco, potrà poi dominare le forze naturali.

Colui che, può fare il buio nei confronti della “luce fredda lunare” (58) potrà poi superare la realtà materiale per andare a cogliere il senso delle ombre dei sogni nascoste nella faccia oscura della luna.

E’ la possibilità di trasformare la memoria materiale dell’informazione in immagine interna, in elemento di realtà psichica.

Questo processo non va inteso come la meccanica ripresentazione dei dati registrati ed archiviati , così come non è film la proiezione sequenziale delle scene girate in tutta la fase di ripresa. Per giungere al film, in cui si può parlare di arte, è infatti necessario, nella fase di montaggio, un lavoro attivo di manipolazione delle immagini in funzione delle idee, delle emozioni, della creatività del regista.

Così nella creazione dell’immagine interna, una volta avvenuta la separazione dall’evento che ha determinato la registrazione dei dati, si rende necessario un lavoro attivo di elaborazione che, a partire dalle tracce mnesiche esistenti, in funzione del vissuto fisico-emotivo realizzatosi, costruisce una nuova immagine che con la realtà materiale ha solo un rapporto funzionale, e che diviene realtà interna, elemento strutturale essenziale di ciò che viene definito inconscio.

In funzione di questo specifico lavoro si realizza la possibilità unicamente umana di rapportarsi alla realtà non in funzione di risposte immediate agli stimoli, perfettamente adeguate e quindi razionali, ma in funzione delle dinamiche delle corrispondenti immagini interne.

E’ la nascita della libertà, dell’irrazionale, di ciò che non esiste nell’animale.

L’uomo può elaborare comportamenti che non rispondono alla finalità razionale della sopravvivenza, può realizzare opere ‘inutili’ dettate dalla esigenza irrazionale di cercare la bellezza nella continua espressione della propria fantasia creativa.

E’ la realizzazione dell’impossibile sogno di liberarsi dalla dittatura della Necessità, a cui persino Zeus doveva sottostare…

 

….quindi venne Amore, il più bel frutto degli dei immortali, colui che scioglie le membra, che di tutti gli dei e di tutti gli uomini doma nel petto l’animo ed i saggi consigli….

Esiodo (59)

 

 

Nota 1

Per sistema omeostatico si intende un sistema materiale-energetico che abbia la capacità di mantenere autonomamente determinate sue caratteristiche in contrasto con spinte disgregatrici provenienti dall’esterno o dall’interno.

L’omeostasi, pur essendo una qualità presente in sistemi chimici, fisici, meccanici ecc., è caratteristica specifica degli organismi viventi.
La biologia infatti si occupa di sistemi in equilibrio dinamico, in cui, cioè, la costante di equilibrio non è staticamente prefissata, ma è continuamente ristabilita mediante correzioni per retroazione negativa (ritorno allo stato precedente) rispetto a continue variazioni ambientali spesso imprevedibili (60).

 

 

Nota 2

I termini: sensazione e percezione, nell’ambito di questa ricerca, non possono essere intesi nello stesso modo in cui vengono usati in psicobiologia o in neurologia, ove non possono essere scissi se non artificialmente dai correlati psichici. Nello studio della realtà fetale invece noi ci troviamo davanti ad una attività nervosa in cui ancora non esiste, o meglio in cui non è dimostrato che esista, alcuna attività psichica.

La sensazione può essere definita come una successione dei seguenti eventi:

1) Eistenza di una energia interna od esterna al sistema in grado di eccitare     specifici recettori.

2) Trasduzione dello stimolo, in modo digitale o analogico, da parte dei recettori.

3) Conduzione dello stimolo attraverso vie nervose.

4) Modulazione dell’impulso attraverso sistemi di controllo a retroazione, a partenza superiore, di tipo inibitorio od eccitatorio con scopo selettivo o specificativo.
5) Elaborazione dello stimolo a livello talamico, per mezzo di interferenze o afferenze specifiche.

6) Proiezione a livello del corrispondente modulo corticale (61).

La percezione può invece essere definite come il risultato dell’ulteriore integrazione di tutti i moduli corticali direttamente o indirettamente interessati all’evento.

Infatti una stimolazione determina un treno di informazioni che giungono in parallelo ai corrispondenti moduli corticali. (62)

Una eventuale risposta motoria però richiede una elaborazione complessa e quindi i vari moduli interessati dalla singola sensazione o da più sensazioni debbono essere processati

Riportando queste definizioni alla realtà fetale sembra di poter affermare che il feto percepisca la realtà esterna se può elaborare complessi movimenti per allontanarsi da una stimolazione tattile proveniente dall’esterno.

Sembra cioé che sia in grado di definire l’hic et nunc dell’origine della stimolazione pur senza averne coscienza.

Esiste la realtà materiale di uno stimolo esistente all’esterno, una elaborazione del dato sensoriale e l’espressione di una complessa risposta ad esso.

Ritengo che sarebbe utile quindi, per definire lo specifico delle attività neurologiche fetali, usare i termini: ‘sensazione materiale’ e ‘percezione materiale’.

 

Nota 3

Quando nel 1936, con le osservazioni di Selye (63), precedute dalle intuizioni di Cannon (64), si cominciò a parlare di stress, si riteneva che la sindrome generale di adattamento fosse una aspecifica reazione dell’organismo ad ogni stimolo minaccioso, al fine di garantire la sopravvivenza dell’individuo, ma che tuttavia poteva divenire causa di malattia se sollecitata in condizioni particolari.

La attuali conoscenze ci fanno ritenere la reazione da stress costituita da una attivazione multiormonale indotta da una sollecitazione del sistema limbico e dell’ipotalamo attraverso impulsi di provenienza corticale e determinati da una condizione di minaccia dell’omeostasi.

Tale situazione fornisce il supporto metabolico per la messa in atto di strategie metaboliche e comportamentali volte a garantire il recupero della condizione di equilibrio.

Sappiamo oggi che questo tipo di reazione, lungi dall’essere aspecifica

non solo induce risposte specifiche rispetto agli stimoli che la hanno provocata, ma anche può essere modulata nel suo esplicarsi da fattori psicosociali ed individuali (genetici). (65) (66)

I due principali componenti delle risposte allo stress socno costituiti dall’attivazione dell’asse ipotamlamo-ipofisi-surrene e del sistema Locus coeruleus-adrenalina-s.n. simpatico. (67)

Una enunciazione estremamente sintetica dei punti salienti di questo complesso fenomeno può essere così schematizzata:

1) Attivazione corticale attraverso stimoli di varia natura.

2) Attivazione dell’ipotalamo che produce CRH ed invia segnali di attivazione all’ipofisi . I recettori ipofisari al CRH sono sensibili al tasso di glicocorticoidi circolanti e diminuiscono rapidamente nelle condizioni di stress cronico. (68)

3) L’ipofisi risponde producendo ACTH,  ß-LPH e ß-E (le endorfine agiscono come modulatori determinando una diminuita risposta emotiva al dolore). (69) L’ACTH ha una azione generalizzata, di tipo stimolante e, insieme con le endorfine esercita una azione di feedback negativo sulla produzione di CRH ipotalamico. (70)

4) La corteccia surrenale libera glicocorticoidi. Questi hanno una funzione di feedback negativo sui circuiti neuronali e metabolici attivati dallo stress. (71)

5) Viene contemporaneamente attivato il sistema ortosimpatico, ed attraverso questo, la midollare surrenale che libera A e NA. Anche le strutture neuronali del s. simpatico secernono NA sia localmente che nel torrente circolatorio. Uno stress acuto determina inibizione delle risposte per deplezione di noradrenalina e riduzione dell’attività della tirosina-idrossilasi. (72) (73)

6) Le catecolamine circolanti esercitano funzioni di controllo sull’attività dell’asse ipotalamo- ipofisi- surrene inibendo la liberazione di CRH attraverso l’interazione con i recettori a-adrenergici ipotalamici e stimolando la produzione di ACTH attraverso l’interazione con i recettori ß-adrenergici ipofisari. (53)

 

9) Numerosissimi altri ormoni agiscono da attivatori o da inibitori direttamente sull’ipotalamo e sull’anteroipofisi. Un fattore di rilievo nel controllo delle reazioni da stress è svolto dal NRF (74).

 

Il senso globale delle attività accennate è che esse derivano da un rapporto critico con la realtà ambiente (stress) ed innescano una risposta di attivazione per l’elaborazione e l’effettuazione di risposte comportamentali. Se le strategie scelte non giungono a buon fine o non possono essere realizzate per la cronicizzazione della condizione di stress, o per l’azione acuta di uno stimolo di livello energetico superiore alla resistenza dell’organismo, o anche per la coesistenza di altri fattori esterni o interni, il processo di difesa può trasformarsi esso stesso in noxa oppure bloccarsi, fondamentalmente a causa dell’esaurimento dei sistemi noradrenergici e del blocco dei recettori per il CRH e l’ ACTH.

 

(CRH= ormone per la liberazione dell’ACTH

ACTH= ormone adrenocorticotropo

ßLPH= ßlipoproteina

ßE=ßendorfina

A= Adrenalina

NA= Noradrenalina

NRF= Fattore di crescita neuronale)

 

 

Nota 4

Questa è una ipotesi estrapolata da quanto è noto relativamente alla sindrome da stress in generale poiché in letteratura non esistono (o non sono stati trovati) lavori che indaghino i primi momenti di vita in funzione di tale assunto. Esistono lavori sullo stress alla nascita, ma prendono in considerazione come stressors elementi di patologia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Carlo de Michele

CHRONIC AND DEGENERATIVE LUMBAGO: FROM OZONOTHERAPY TO INTEGRATED THERAPY

International Journal of Ozone Therapy, April 2011

 

 

PREMESSA E SCOPO DEL LAVORO.

 

Incidenza della lumbago

 

Dall’esame della letteratura emerge che tra il 70 ed il 90% della popolazione attiva subisce almeno un episodio di lumbago nel corso della vita, che il 35% della popolazione ultra 65 enne soffre di lombalgia cronica, ma stupisce che da un lavoro del 2009 emerga che il 26% di ragazzi tra gli 11 ed i 14 anni, studenti, soffre di ricorrenti episodi di lumbago. [1]

 

In genere, il decorso degli episodi acuti è favorevole e la lombalgia si risolve rapidamente: solo una percentuale limitata di pazienti (5%) sviluppa lombalgia cronica a seguito di un episodio acuto.

La maggior parte dei soggetti non subisce singoli attacchi di lombalgia, ma spesso affronta recidive acute che si innestano su manifestazioni croniche. Secondo alcuni Autori, il rischio cumulativo di recidiva entro 12 mesi è di 73% (IC 95% = 59%-88%). [2]
Sulla popolazione in generale, tra coloro che per un episodio acuto cercano assistenza medica, il 62% continuerà ad avere dolore ad un anno di distanza.[3]

 

Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti circa il 90% delle lombalgie resta senza diagnosi etiologica., il 4% dei pazienti con lombalgia è affetto da fratture associate a osteoporosi, il 3% da spondilolistesi, lo 0,7% da un tumore o da una metastasi, lo 0,3% da spondilite anchilosante e lo 0,01% da infezioni. Fattori favorenti l’insorgenza di lombalgia sono considerati: sedentarietà, disturbi metabolici, attività lavorativa deteriorante, esiti traumatici, ma anche stress emotivi od ansia-depressione, comportamenti scorretti come fumo o alimentazione incongrua, somatizzazione.

 

Non esiste una classificazione valida per definire la lombalgia senza eziologia nota, generalmente si impiegano criteri temporali: si definisce acuta quando di durata inferiore a sei settimane, subacuta quella che raggiunge i tre mesi e cronica la lombalgia di durata superiore ai tre mesi.[4]

Da questa breve e succinta disamina della letteratura emerge che la lumbago deve essere considerata una malattia multifattoriale, vale a dire che cause diverse determinano una risposta sintomatica uguale, come si verifica nei Sistemi Complessi.

Scopo del lavoro è quello di cercare nuove possibilità interpretative seguendo il modello della complessità e conseguentemente integrare la terapia specifica con interventi che riescono a modificare l’andamento progressivo della malattia.

 

Materiali e Metodo

Sono stati confrontati due gruppi di pazienti: il primo relativo al periodo 1993-2000, ed il secondo al periodo 2001-2008.

Nel primo gruppo (1993-2000) sono stati inseriti pazienti affetti da lombalgia con ernie discali

documentate, discopatie degenerative o lombalgie di durata superiore a 6 mesi e resistenti ad altre

terapie e ricadute dolorose dopo intervento chirurgico.

L’età dei pazienti è compresa tra i 23 ed i 78 anni, media 43.

Sono stati presi in considerazione solo i pazienti che hanno accettato il follow up di almeno 3 anni e coloro che si sono ripresentati spontaneamente per nuovi episodi lombalgici che abbiano richiesto interventi terapeutici.

 

Nel secondo gruppo (2001-2008) i criteri di ammissione sono stati gli stessi del primo gruppo, ma, alla fine del trattamento ossigeno-ozonoterapico, è stata proposta una valutazione posturale ed un eventuale intervento di riabilitazione posturale. In questo gruppo è stata valutata anche la coesistenza di problematiche odontoiatriche, di problemi di soprappeso

La visita posturale prevedeva l’osservazione e la valutazione delle curve della colonna , sia sul piano sagittale che sul piano frontale, il parallelismo degli assi di riferimento, la valutazione della Verticale di Barrè, la posizione della proiezione dell’asse del baricentro sul poligono di appoggio, la valutazione Posturo-dinamica, la valutazione del riflesso nucale, il test di convergenza podalica e la valutazione della simmetria degli arti inferiori.

La valutazione odontoiatrica teneva conto dei problemi propriamente odontoiatrici come presenza di protesi, mancanze o patologie dentali o parodontali, presenza di otturazioni in amalgama, di eventuali problemi ortodontici e dello stato delle articolazioni Temporomandibolari.

Sono stati poi confrontati i tassi di recidive del gruppo che ha praticato solo ossigeno-ozonoterapia con quelli del gruppo che ha praticato riabilitazione posturale, correzione del regime alimentare e tonicizzazione muscolare.

 

Per la ossigeno-ozonoterapia è stato scelto di utilizzare la via iniettiva intramuscolare paravertebrale, trattando la zona interessata dall’evento patologico e gli spazi intervertebrali immediatamente superiori ed inferiori, praticando da 6 ad 8 infiltrazioni. La quantità iniettata varia da 7 a 10 cc per iniezioni con una concentrazione da 16 a 20 microgrammi/millilitro. La frequenza delle sedute è stata ogni 5/7 giorni per un numero medio di 10 sedute. E’ stato eseguito un primo controllo dopo 2 mesi con eventuale ciclo di richiamo di 4 sedute nei casi in cui fosse presente ancora qualche disturbo.

 

 

 

 

Risultati

 

N. pazienti Recidive a 3 anni
Discopatie 155 (67%)      52 (33,5%)
Ernie 76 (33%)      28 (36,8%)
Totale 231      80 (34,6%)

 

Tab 1

Pz in monoterapia O3 anni 1993/2000

 

In questo gruppo sono stati arruolati   pazienti che sono stati trattati esclusivamente con infiltrazioni intramuscolari paravertebrali di miscela Ossigeno-Ozono e che hanno avuto un risultato buono-ottimo, sia in caso di ernia discale documentata con RMN che di discopatie degenerative multiple.

Il tasso di recidive a 3 anni è stato mediamente del 34,6%, ma, specialmente nel gruppo di pazienti affetti da ernia, che non hanno modificato le proprie abitudini di vita, le recidive consistenti in crisi di dolore lombalgico che hanno necessitato di nuovo ciclo di terapia infiltrativi, si sono presentate anche a distanza di circa 1 anno. Tra questi, 8 pazienti che hanno presentato recidiva di ernia infundibolare hanno scelto la terapia chirurgica.

 

 

 

N. pazienti Recidive a 3 anni
Discopatie 60 (78%)      21 (36%)
Ernie 16 (21%)        6 (37,5%)
Totale 76

 

Tab 2

Pz in monoterapia O3 anni 2001/2008

 

Ai pazienti che hanno richiesto l’intervento medico per lombalgia dopo l’anno 2001 è stata sempre prospettata l’utilità di valutare ed eventualmente trattare la postura. Sul totale di 223 pazienti 76 (34%) non hanno accettato ed hanno scelto di sottoporsi solo a monoterapia con Infiltrazioni di Ossigeno-Ozono, mentre 147 (66%) hanno accettato il percorso di Terapia Integrata.

Nel gruppo in monoterapia il tasso di recidive a 3 anni è stato di 21 p. sul gruppo di 60 p. affetti da discopatie (36%) e di 6 p. sul gruppo di 16 affetti da ernie (21%).

 

 

N. pazienti Recidive a 3 anni
Discopatie 95 (64,6%)      9 (9,5%)
Ernie 52 (35,3%)      8 (15,3%)
Totale 147

 

Tab 3

Pz. In terapia integrata anni 2001/2008

 

Nel gruppo in Terapia integrata 9 pz hanno presentato recidive che hanno richiesto un breve intervento terapeutico, sul gruppo di 95 p. affetti da discopatie (9,5%), ed 8 p. su 52 affetti da ernie (15,3%).

 

 

N pazienti    N pz N pz N pz
Lumbago 223
Deficit postura 201 (90%)
Disordini denti 136 (60,1%)
Sovrappeso 96 (43%)

 

 

Tab 4

Pazienti con problematiche concomitanti anni 2001/2008

 

Nel gruppo di pazienti a cui è stata proposta la Terapia Integrata è stata valutata la situazione posturale e la concomitanza di problematiche orali e temporomandibolari, il sovrappeso, quasi sempre accompagnato da deficit muscolari.

Del gruppo di 223 p. 201 (90%) hanno presentato problemi posturali non compensati.

Il 60 % presentava problematiche odontoiatriche che influenzavano direttamente i deficit posturali ed il 43% (96 p.) presentava deficit muscolari consistenti prevalentemente in ipotonicità dei muscoli addominali e tensione delle catene estensorie e degli ileo-psoas.

 

 

Conclusioni

 

 

Nel corso di circa 30 anni di osservazione e studio delle lumbago mi sono convinto che un’ernia discale non è un evento patologico che compare accidentalmente in un contesto precedentemente sano, ma è l’esito di una serie di eventi progressivi ed ingravescenti, intrinsecamente connessi con la postura [5][6]di ogni singolo individuo.

Una postura scorretta implica asimmetrie del carico sulle articolazioni che inducono meccanismi di compenso volti ad impedire manifestazioni dolorose. La sintomatologia soggettiva compare allorché le capacita di compenso del sistema si esauriscono.

In questi casi il deficit posturale diventa un fattore traumatico che induce risposte infiammatorie a partire dal settore articolare interessato, con attivazione sia del versante neurologico che di quello immunitario

Un qualsiasi stimolo periferico dotato di opportune caratteristiche, può indurre reazioni di eccitazione nervosa che si esprimono anche a distanza,[7] e non solo a livello del metamero interessato, per effetto del fenomeno della multiconvergenza e della diffusione che giungono ad interessare la formazione reticolare troncoencefalica determinando alterazioni del tono dei muscoli involontari (posturali).[8]

Gli stimoli da alterato carico a partenza delle zone interessate hanno la caratteristica di essere d’intensità non elevata ma costanti nel tempo. Questa è una delle caratteristiche dello stimolo che induce la fibra nervosa ad esprimere Glutammato, Neuropeptidi e prostaglandine, tutte sostanze di tipo eccitatorio. Come è ormai noto questo particolare stato di depolarizzazione neuronale è rapidamente condotto a livello delle radici dorsali ove, a livello della lamina V di Rexel esistono particolari neuroni dinorfinergici la cui funzione è quella di modulare l’andamento temporale dell’eccitazione. Di norma l’arrivo di un impulso attiva un interneurone inibitore che impedisce la propagazione dell’impulso, ma se gli impulsi si ripetono, per un effetto di sommazione il neurone inibitorio viene a sua volta inibito aprendo all’impulso la strada della propagazione lungo il nevrasse. Contemporaneamente vengono interessate fibre NV che inducono fenomeni infiammatori con coinvolgimento del Sistema Immunitario   che a lungo andare innescano fenomeni degenerativi. Tali eventi si accompagnano alla comparsa di alterazioni del tono sia a partenza riflessa spinale sia come manifestazione della disregolazione dei centri reticolari.

 

 

E’ estremamente interessante notare come anche le alterazioni dell’apparato stomatognatico possono agganciarsi o addirittura indurre i fenomeni appena descritti.

La grande e particolare innervazione delle strutture orali e la disposizione spaziale del nucleo del trigemino che arriva sino a contatto con la sostanza reticolare troncoencefalica fa si che fenomeni irritativi-infiammatori che lo interessino giungono determinare reazioni di alterazione del tono dei muscoli involontari capaci di innescare vere e proprie patologie posturali dapprima e osteoartro degenerative successivamente.

In particolare c’interessa l’esistenza di un riflesso odonto-dorsale che determina una contrazione dei m. estensori del dorso e degli arti anteriori in funzione degli stimoli che provengono dai recettori dei legamenti sospensori dentali. Condizioni occasionali, come un semplice contatto cuspidale anomalo, possono indurre i neuroni interessati ad esprimere glutammato determinando una condizione di depolarizzazione stabile.

Diviene evidente che i frequentissimi difetti nello sviluppo della dentizione definitiva possono essere causa non solo dei disturbi estetico-funzionali di cui si occupano gli ortodontisti, ma anche di futuri problemi a carico della colonna vertebrale.

 

Per i motivi espressi ho ritenuto che la terapia con infiltrazioni di Miscela Ossigeno-Ozono sia l’intervento migliore per interrompere la catena infiammazione-cronicizzazione, ma appena le condizioni del paziente lo hanno permesso, l’esame posturale mi ha consentito di individuare i punti causali del deficit   che si instaura di solito durante la fase di accrescimento.

 

La fase di trattamento del disturbi posturale avviene quasi sempre attraverso l’elicitazioen di riflessi a livello orale, non perché sia convinto che tutto dipenda dalla bocca, ma perché essendo il Sistema Posturale un sistema complesso è essenziale trovare una adeguata “porta” di ingesso, e l’ingresso orale è secondo me privilegiato sia per la ricchezza di recettori sia per la facilità con cui si possono modificare gli eventuali stimoli terapeutici, in rapporto ai periodici controlli dei test posturali.

 

Un elemento forse ancora più difficile nel rapporto col paziente lombalgico è quello di indurlo a modificare alcune abitudini di vita come modificare l’alimentazione, assumere l’abitudine di praticare attività fisica adeguata e migliorare il mondo psico-affettivo in cui si muove.

Quando si riesce ad intervenire positivamente su tutti questi fronti, il rischio di recidive si riduce moltissimo, sino ad arrivare a vere e proprie “guarigioni”, almeno dal punto di vista funzionale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Gareth T.J. su “Artritis and Reumatism”

[2] Koes BW et al. BMJ 2006; 332

[3] Hayden J.A. etA. Best practice and research Clinical Rheumatology 2010

[4] Koes BW et al.BMJ 2006; 332

[5] Postura: condizione di oscillazione della proiezione del centro di gravità intorno ad un punto centrale interno al poligono di appoggio gestita da riflessi che controllano il tono dei muscoli involontari con il minimo dispendio energetico

-in risposta alla forza di gravità

-in assenza di stimoli esterni perturbanti

-in funzione della realtà genetica, storica ed istantanea di ogni singolo individuo. ( C. de Michele)

 

[6] Postura è l’immagine di verticale soggettiva a cui il corpo si riferisce per ristabilire o mantenere l’equilibrio ( C. de Michele)

 

[7] Richardson J.D., Vasko M.R., Cellular mechanism of neurogenic inflammation, in Journ. Pharmac. Exper. Ther

[8] C. de Michele, Metodologia Clinica in Posturologia, Atti I° Congr. Intern. CIES Padova 2006

DALL’ODONTOIATRA AL POSTUROLOGO E V.V.

Dr. Carlo de Michele

Convegno Dental Tray

Roma, 4 Luglio 2009

 

Non amo pensare alla posturologia come ad un’ennesima specializzazione della medicina, quindi ad un’ulteriore parcellizzazione del sapere, ma piuttosto ad un modello di organizzazione delle conoscenze che, riferendosi ad una specifica espressione dell’uomo, cioè il suo stare in piedi e muoversi, sembra riportarci alle domande basilari sul senso dell’esistenza dell’uomo.

Per tentare di dare una sia pur parziale risposta siamo quindi costretti a pensare all’uomo nella sua totalità individuale e al sapere come alla conoscenza del mondo che ciascuno di noi ha, più o meno consapevolmente.

Il sapere medico, dal 1600 ad oggi, ha tratto grandi vantaggi dall’applicazione al proprio terreno del metodo e delle conoscenze sviluppate dai fisici nello studio della natura. La metodologia della fisica Newtoniana si basa sulla individuazione di un problema, sulla osservazione, sulla creazione di un modello semplificato, distinguendo caratteristiche significanti e caratteristiche secondarie, sulla sua traduzione in termini matematici, sulla ricreazione del modello in laboratorio e sulla verifica sperimentale. Questa impostazione ha permesso di scoprire con precisione indiscutibile la gran parte dei fenomeni biologici sino alla natura e le relazioni delle singole molecole,  se considerati singolarmente nella loro struttura essenziale, ma mostra i suoi limiti se li consideriamo nella loro globalità di fenomeni unici, complessi di cui possiamo avere nozione solo osservandone le specifiche espressioni. In questi casi, pur restando valido il principio di linearità nei rapporti tra i singoli componenti del sistema considerati in modo isolato, (vale a dire che al variare dell’uno abbiamo una variazione diretta e proporzionale dell’altro) le interrelazioni sono talmente tante che il comportamento finale non è prevedibile a partire dalla modificazione di un dato iniziale. I sistemi biologici sono SISTEMI COMPLESSI in cui più che lo studio del funzionamento delle singole parti considerate isolatamente è necessario studiare il modo in cui le parti comunicano e si relazionano per dar luogo ai comportamenti finali che noi osserviamo.

La Postura, come del resto qualsiasi comportamento umano, è espressione di complessità. Il mantenimento della posizione eretta ed il movimento sono il risultato ultimo, evidente, di una serie infinita di equilibri instabili interdipendenti, che consentono all’uomo di adeguare costantemente la propria condizione al variare delle situazioni ambientali.

Sappiamo che il corpo umano è dotato di numerosissimi recettori in grado di rilevare costantemente parametri fisico chimici ambientali. I dati vengono interfacciati a vari livelli in funzione delle capacità di comunicazione dei diversi network per essere trasformati in potenziali d’azione che giungono alla rete più elevata costituita dal sistema emisferico che elabora pensiero o azione in risposta.

Per comprendere come l’uomo sia arrivato ad assumere le sue caratteristiche attuali, ed in particolare la postura bipodalica, è necessario ripercorrere alcune tappe fondamentali dell’evoluzione, ed in particolare quelle relative al S. Nervoso, poiché è indubbio che la specificità umana sia sostenuta dalle caratteristiche del suo cervello.

 

PRINCIPI DI EVOLUZIONE

Nel momento in cui particolari sostanze proteiche si sono raggruppate legandosi a particolari processi metabolici e riproduttivi è stato necessario differenziare un interno dall’esterno, ed a ciò ha provveduto la membrana cellulare, la cui funzione fondamentale è quella di mantenere une condizione interna costante rispetto a condizioni esterne variabili. Per accedere a tale funzione sulla superficie della membrana si sono sviluppate particolari strutture proteiche, i recettori,  capaci di rilevare le condizioni esterne e di comunicarle all’interno. Più cellule (cioè strutture fornite di membrana con esigenze complementari) hanno poi trovato utile correlarsi formando i primi sincizi in cui la comunicazione avveniva per contiguità attraverso prodotti espulsi all’esterno. I successivi gradini dell’evoluzione hanno dato luogo ad organismi sempre più complessi in cui alcuni gruppi cellulari si sono differenziati a costituire l’epitelio esterno, (cioè una sorta di membrana che invece di racchiudere i liquidi e le strutture di una singola cellula racchiude l’insieme delle cellule costituenti l’individuo) ricco di recettori ambientali. Tra le cellule epiteliali alcune si sono poi specializzate nella recezione e trasmissione di informazioni sino a costituire i primi abbozzi di sistema nervoso. La specializzazione in cellule nervose ha costituito un grosso vantaggio per la velocità e precisione di comunicazione, poiché l’informazione viene condotta attraverso vie specifiche direttamente alle cellule interessate. Il modello della trasmissione per contiguità non è stato però abbandonato, ma svolge tuttora una funzione importante anche negli organismi evoluti: esso permane sia nella funzione di informazione nelle reti (sia periferiche che centrali) sia nella funzione endocrina in cui sostanze (ormoni) prodotte da cellule vengono espulse   all’esterno e svolgono la loro attività andando indistintamente a toccare le cellule che abbiano sulla superficie particolari siti recettoriali. Il sistema permette diversi tipi di comunicazione:

  • ENDOCRINA: a distanza per via ematica. Le stesse sostanze  sono prodotte però anche dai neuroni (neurormoni) realizzando una comunicazione di tipo ormonale per via nervosa.
  • PARACRINA: nell’ambiente liquido a cellule prossime (ormini,neurotrasmettitori).
  • AUTOCRINA: all’interno della stessa cellula: la membrana cellulare è provvista di recettori sensibili a prodotti propri espressi all’esterno.

 

Una volta realizzate strutture viventi capaci di autoreplicarsi sono apparse continue attività di trasformazione secondo i principi fondamentali dell’evoluzione.

In tutti gli esseri viventi dotati di patrimonio genetico trasmissibile avvengono continuamente ed   in modo del tutto afinalistico una grande quantità di mutazioni sotto la pressione di agenti esterni, la maggior parte delle quali vengono bloccate prima che possano dare luogo alla loro espressione dalla capacità di ogni organismo di conservare la propria identità strutturale. Raramente danno luogo a   strutture nuove che però, nella stragrande maggioranza dei casi, confliggono con la possibilità di vita del soggetto. In modo eccezionalmente raro invece danno luogo ad una nuova struttura che le condizioni ambientali favoriscono rispetto alle forme precedenti. Solo in questi rarissimi casi, che per realizzarsi hanno bisogno di un grande numero di prove in tempi di lunghezza inimmaginabile, emergono nuovi individui datati di nuove capacità che tuttavia non comportano l’abbandono di strutture e funzioni precedenti. Le nuove specie presentano   nuove capacità che consentono di ampliare gli spazi in cui approvvigionarsi dell’energia necessaria alla sopravvivenza e riproduzione relegando le antiche attività a livelli inferiori, di controllo automatico di funzioni organiche, poiché la nuova struttura di solito esprime una capacità inibitoria che permette di modulare la funzione precedente.

Un esempio illuminante è costituito dal passaggio dai celenterati (meduse) alle prime forme di pesci dotati di midollo spinale assiale. Nei celenterati la trasmissione degli impulsi avviene per contiguità cellulare per mezzo di un amminoacido eccitatorio, il GLUTAMMATO (la stessa sostanza che nell’uomo ha grande importanza in numerosissimi processi nervosi come la memoria o la cronicizzazione del dolore). Qualsiasi sia lo stimolo che colpisce il mantello della medusa essa reagisce contraendo globalmente le sue cellule muscolari realizzando un primitivo riflesso di allontanamento. La comparsa di una nuova molecola, l’enzima decarbossilasi, ha permesso di trasformare l’amminoacido eccitatorio in un’altra molecola, l’ ACIDO GAMMA AMINO BUTIRRICO, capace di inibire la funzione eccitatoria del glutammato. In funzione di ciò si sono sviluppate strutture capaci di rispondere ad uno stimolo non in modo globale ma in modo modulato per il raggiungimento di un fine. Il gioco di queste sostanze ha permesso l’emergenza di strutture con un abbozzo di sistema nervoso al centro del corpo, una divisione simmetrica in destra e sinistra e la possibilità di realizzare una nuova forma di propulsione, ad esempio il nuoto serpeggiante, attraverso il semplice alternarsi di impulsi eccitatori (Glutammato) ed inibitori (GABA) sui muscoli laterali.

E’ da tenere presente che il gioco di queste sostanze è giunto intatto sino all’uomo.

Possiamo quindi enunciare il principio fondamentale dell’Evoluzione in questi termini: mutazioni del tutto casuali in rarissimi casi danno luogo a nuove strutture; se la selezione ambientale favorisce gli organismi dotati di nuova capacità le strutture precedenti non vengono eliminate ma restano per gestire le vecchie funzioni sotto il controllo inibitorio delle nuove strutture dotate di capacità finalistiche più elevate.

Conseguenza di questo tipo di organizzazione è il fatto che se per qualche ragione viene meno il controllo da parte delle strutture superiori quelle sottostanti possono riprendere il controllo della situazione, realizzando così un meccanismo fisiopatologico di base comune a molte malattie (Riflesso di Babinsky, Parkinson, difetti posturali)

 

Sulla base dei principi dell’evoluzione Mc Clean ha formulato la “teoria dei tre cervelli”, distinguendo negli animali superiori tre tappe fondamentali:

1) Il cervello rettiliano in cui compaiono cervelletto e mesencefalo che gestiscono il movimento ed il controllo delle funzioni fisiologiche vitali.

2) Il cervello dei mammiferi, in cui compare il sistema libico, a cui si devono i primi comportameti sociali.

3) Il cervello superiore (dei primati) che consente un elevato controllo volontario sino alla mentalizzazione totale degli esseri umani.

La caratteristica umana che più ci interessa per quanto riguarda il sistema nervosa è rappresentata dalla trasformazione euristica del suo funzionamento. Sino ai primati il sistema nervoso è la struttura che esprime il massimo dell’adattamento all’ambiente: per quanto le capacità decisionali del singolo siano elevate tuttavia non si discostano mai dalla finalità di consentire nel modo migliore possibile sopravvivenza e riproduzione. Esiste anche una notevole capacità di apprendimento, ma è sempre finalizzato alla ottimizzazione degli istinti. Anche nei primati la base dei comportamenti sono geneticamente predeterminati.

 

LE CARATTERISTICHE UMANE

Nell’uomo invece avviene un vero e proprio salto. La possibilità di esprimere libertà prevale sulle leggi dell’adattamento; l’uomo nasce privo di nicchia biologica per tanto è l’unico animale che ha la possibilità e la necessità di modificare l’ambiente secondo le proprie esigenze. Il cervello umano invece di esprimere il massimo dello sviluppo in funzione dell’ambiente esprime il massimo delle potenzialità ed uno sviluppo epigenetico mai realizzate negli scalini evolutivi precedenti. Il cervello umano ha possibilità di sviluppare pensiero irrazionale, di inventare oggetti inesistenti in natura, di pensare sé stesso e creare conoscenza.

Queste nuova capacità sono il frutto di uno sviluppo eccezionale particolarmente a carico delle strutture emisferiche in funzione di una flessione della parte anteriore del tubo neurale secondo un piano di sviluppo embrionale che ricorda le tappe dello sviluppo evolutivo. Per inciso ricordo che il rapporto tra massa cerebrale e volume corporeo è, negli esseri umani, il doppio che nei primati più evoluti.

E’ l’enorme sviluppo del cervello che ha determinato il cambiamento della forma del cranio osseo umano e, forse, anche la stazione eretta. Se noi osserviamo il fenomeno dal punto di vista evoluzionistico vediamo come all’aumento volumetrico delle strutture nervose cefaliche corrisponde una progressiva flessione anteriore del massiccio facciale. Nei rettili ed anfibi il cranio è piatto, triangolare, svolto tutto nel piano orizzontale. Negli uccelli comincia a conformarsi una calotta con il becco che scende in avanti ed in basso. Nei mammiferi la calotta cranica è ben conformata ed il massiccio facciale è tutto al di sotto di un osso frontale che assume una verticalità sempre maggiore. Nell’uomo la flessione-spiralizzazione arriva al suo compimento con una sviluppo enorme della volta cranica, una riduzione di volume ed arretramento del mascellare e del mandibolare. Possiamo pensare quindi che sia proprio lo sviluppo delle masse cerebrali con le loro simmetrie ad influenzare le trasformazioni spaziali del cranio e delle strutture scheletriche umane.

 

LE BASI DELLA POSTURA

Gli elementi che debbono essere presi in considerazione sono le suture craniche, le strutture della base con le piramidi del temporale, la falce con il suo innesto sulla crista galli, il tentorium nella sua prosecuzione ideale col piano della base del cranio. E’ verosimile che queste strutture, sotto la spinte di forze di pressione e trazione, correlate alla presenza della forza di gravità, rappresentino le chiavi spaziali rispetto a cui si orientano nello sviluppo post natale le simmetrie posturali.

E’ infatti evidente che la possibilità di mantenere correttamente l’equilibrio necessario alla postura eretta ed al movimento bipodalico è funzione del corretto allineamento della posizione spaziale dei canali semicircolari e dell’asse bipupillare. E’ altrettanto evidente che questi allineamenti sono prioritari mentre la parti mobili osteo-artro-muscolari rappresentano momenti di compenso a garanzia dell’allineamento fondamentale.

Quali sono i meccanismo attraverso cui si realizza la postura umana? Anche in questo caso vediamo confermata l’asserzione fondamentale dell’evoluzione, cioè che la comparsa di nuove potenzialità non elimina le capacità precedentemente convalidate. Infatti il meccanismo base della postura è costituito da attività nervosa riflessa, così come nei celenterati e nei primi vermi marini.

Caratteristica specifica della postura è infatti quella di non essere gestita da elaborazioni coscienti e da muscolatura volontaria ma da informazioni inconsce e dalla muscolatura involontaria, tonica. Il riflesso fondamentale è il riflesso di estensione, antigravitario,  (conseguente alla stimolazione della pianta del piede) così come osserviamo nei classici esperimenti sui gatti decerebrati. Sono poi i meccanismi di inibizione cerebellari e cerebrali superiori che intervengono a modulare l’ attività muscolare riflessa. Il meccanismo principale di gestione del mantenimento della postura avviene ad opera del sistema dei gamma motoneuroni, la cui funzione è quella di mantenere un costante ed adeguato livello di contrazione dei muscoli involontari in funzione delle continue oscillazioni.

La postura è mantenuta in funzione di una immagine propriocettiva individuale di verticalità. Tale immagine non è congenita ma è acquisita in funzione della possibilità della specie umana di mantenere la stazione eretta bipodalica e della storia individuale. Ciò vuol dire che molto raramente la postura soggettiva corrisponde alla verticale fisica. In realtà essa è la migliore possibile in funzione della realtà individuale (anomalie di sviluppo, errori di apprendimento, muscolatura inadeguata, esiti di malattie o traumi pregressi ecc) tenendo conto che istante per istante il nostro corpo conosce le disponibilità in funzione della memoria biologica di ogni evento che abbia interessato la nostra realtà.

Sappiamo inoltre che la postura è correlata al tipo di informazioni che giungono dai recettori periferici (Occhi, afferenze otolitiche, barocettori della pianta del piede, recettori muscolo tendinei) ma ancora si discute sul valore da attribuire alle informazioni oro-dentali. Si ritiene dai più che esse abbiano valore di interferenza con quelle provenienti dai recettori specifici, ma alcune scuole francesi ritengono bocca e denti un vero e proprio recettore posturale. Ciò in funzione della grande innervazione trigeminale che sarebbe responsabile non solo della attività sensorimotoria ma anche della percezione spaziale delle meningi. In particolare la perpendicolarità tra tentorio e grande falce costituirebbero una sorta di matrice spaziale originaria che informa la postura in toto e che dovrebbe funzionare in relazione alla orizzontalità del piano di masticazione.

Un’ipotesi che non è ancora apparsa sui testi a disposizione è che le alterazioni del controllo posturale possano scaturire dal meccanismo comune su base evolutiva che consiste nel fatto che se le strutture di controllo supriori per qualche ragione vengono meno ricompare l’attività precedentemente svolta dalle strutture inferiori.

Può questa ipotesi attagliarsi a quanto avviene a livello oro-dentale?

Ritengo di si, poiché in bocca spesso avvengono situazioni che portano a stimolazioni di tipo anomalo, come un alterato contatto dentale, mancanze, infezioni croniche, esiti cicatriziali di interventi chirurgici. Tutte questa situazioni innescano meccanismi neurologici particolari che partendo da stimolazioni di tipo genericamente irritativo, possono facilmente cronicizzarsi  per ragioni locali o per complessi meccanismi di centralizzazione dell’infiammazione, mandando in tilt i meccanismi di controllo superiori. In questi casi potrebbero riemergere meccanismi primitivi di risposta allo stimolo che consistono nell’innesco di contrazione dell’apparato estensore in modo afinalistico. In tali condizioni gruppi di muscoli estensori si troverebbero in contrazione non in funzione del mantenimento della postura ma per una stimolazione anomala di tipo eccitatorio/infiammatorio. Questa potrebbe essere la base di numerose reazioni adattative sia di tipo biomeccanico che neurologico che possono dare luogo a numerosissimi quadri patologici che vanno dai comuni mal di schiena, alle vari forme di artrosi, ad alcuni tipi di emicrania, a tutto il corteo di disturbi che vanno sotto il nome di sindrome da deficit posturale ma anche alterazioni di ordine generale che possono giungere sino alla comparsa di coliti ulcerose così come ha dimostrato Speransky negli anni 50, provocando coliti ulcerose in cani a cui provocava pulpiti croniche per mezzo di capsaicina